La democrazia ha bisogno di dispute, di controversie, a tutti i livelli: privato, collettivo, istituzionale. L’opposizione e il dissenso nei confronti dello stato attuale delle cose non solo sono garantiti dalla nostra Costituzione, ma vi sono ancorati. Ma cosa fare quando, come ora, la disputa civile spesso non è più possibile?

Questo è un momento di grandi discussioni. In tempi di covid la discussione pubblica si polarizza. Sta diventando più forte, più rude, a volte volgare e insopportabile. Ciò che cade nel dimenticatoio non è solo la discussione produttiva e civile, ma anche la capacità di compromesso, che rende la nostra democrazia vitale e adatta al futuro.

Non c’è dubbio: la gente dovrebbe discutere. Il dubbio, la ribellione, la resistenza non sono vizi in una società libera, ma il suo fondamento. La controversia è costitutiva della democrazia – a tutti i livelli: privato, collettivo, istituzionale. La nostra democrazia prospera sulla controversia. Solo attraverso un costante dibattito pubblico possiamo coordinare con successo i diversi interessi.

“Solo nella discussione chiariamo ciò che è importante per noi come società, quali valori vogliamo fondamentalmente rappresentare e quali decisioni politiche siamo disposti a sostenere come società. Alla fine c’è un compromesso. Non deve essere il punto di partenza di un dibattito, ma il suo punto di arrivo”, dice Michel Friedman. L’avvocato, giornalista e filosofo ha scritto un libro compatto e intelligente sull’argomentazione che si adatta ai nostri tempi, intrecciando la critica sociale e culturale con riflessioni filosofiche ed esperienze personali. Friedman stesso è considerato una persona estremamente polemica, che alterna abilmente argomenti e auto-drammatizzazione nelle apparizioni sui media per difendere le sue posizioni davanti al pubblico. In breve: un rappresentante argomentativo della cultura democratica di discussione.

Ma quando può nascere una discussione utile, perspicace e buona? “Formulare la propria posizione e tesi, il proprio atteggiamento e pensiero, ossia rendere chiaro ciò che si sostiene, è il primo passo per una disputa produttiva. Se tutti i partecipanti hanno lo stesso spazio e la stessa attenzione, può iniziare una buona discussione…”, dice Friedman. E fa notare che negli ultimi decenni la nostra ricca democrazia è stata spesso caratterizzata dall’evitare il conflitto – e dove è sorto, dalla fretta di livellare e pacificare. Troppo consenso, soprattutto quando viene raggiunto troppo facilmente e rapidamente, favorisce l’opportunismo, premia l’acriticità, minaccia l’individualizzazione del pensiero. Conformismo invece di pluralismo. Una società aperta, tuttavia, prospera sulla diversità, sulla disputa e sul conflitto. La controversia è ossigeno per la democrazia. In un certo senso, è “sistematicamente rilevante”.

Friedman chiede che “l’idea di cooperazione sia rafforzata, perché la disputa non solo crea relazioni sociali, anche dove non ce n’erano prima, ma è essa stessa un tipo particolare di relazione sociale”. Certo: la democrazia non è una comunità. La democrazia è la società, cioè lo scontro e l’accettazione di diversi interessi, punti di vista e opinioni. Si vorrebbe discutere con tutti, ma non si può ( … e non si deve!) farlo. I fanatici, gli estremisti e i populisti non ascoltano comunque. Non sono interessati ad altre opinioni. Preferiscono stare nelle loro camere insonorizzate. Rifuggono il dialogo. Sono autistici.

Cosa fare in questi tempi carichi di tensioni? Discutere con i bastian contrari e i polemici violenti sui social networks? Con giuristi esoterici e autoproclamati combattenti della resistenza? Con vecchi ideologi e giovani nazisti? Allora come oggi, è ovvio come vadano giudicati gli agitatori vestiti di marrone e come sia fuori questione attribuire loro delle “legittime preoccupazioni” borghesi. Allora come oggi però, la questione è cosa fare con il crescente numero di persone che si uniscono alle manifestazioni di protesta per la situazione creata dal covid, anche se vedono chi fa i discorsi e sventola le bandiere sul palco.

“Nella mia visione del mondo, i seguaci sono responsabili di ciò che accade negli insiemi a cui si uniscono”, scrive Nikolaus Blome nella sua rubrica sullo Spiegel. Non dobbiamo però mettere insieme agitatori e compagni di viaggio. Il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di manifestazione è come il diritto all’integrità fisica (che è quello di cui si occupano gli attivisti anti-vaccino), giustamente sancito nei nostri diritti fondamentali. Quello che rimane è discutere tra di noi. Che altro fare?

L’autrice e psichiatra austriaca Heidi Kastner esprime una riserva: crede che non si debba necessariamente passare attraverso la fatica di litigare, soprattutto se non c’è volontà di dialogo e compromesso da parte delle persone coinvolte. Allora, dice Kastner in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, è meglio farne a meno e chiamarlo per quello che è, cioè “una combinazione senza scopo e prevedibilmente inconcludente di due monologhi, e risparmiarsi la fatica, il fastidio e il tempo di discutere con gente che confonde il diritto alla propria opinione con il diritto ai propri fatti”. Sono pienamente d’accordo con Heidi Kastner.

Stephan Russ-Mohl, professore emerito di media all’Università della Svizzera italiana, è preoccupato per i danni alla politica e alla democrazia causati da questa crescente “incapacità di discorso”. Per questo ha pubblicato un libro molto voluminoso in una nuova collana con l’ambizioso fine di “salvare il discorso pubblico”. Due dozzine di autrici e autori invocano con posizioni e argomenti molto controversi “più argomentazione e più arte dell’argomentare” (come dice il titolo). L’intenzione dell’editore è di dare un po’ di slancio alla capacità perduta della belligeranza, “vincolante nel tono, ma dura e risolutiva nella sostanza”. Rappresentando uno spettro di posizioni e argomenti diversi, il libro soddisfa piacevolmente questo scopo. Una lettura stimolante e utile, un appello necessario per un dibattito civile ed empatico. Perché è più che mai vero che abbiamo bisogno che le discussioni non siano meno, ma migliori.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid.

Revisione di Anna Polo