Cosa vuol dire oggi fare politica? Cosa vuol dire oggi essere di sinistra? Ne parliamo con lo storico Angelo D’Orsi, già Docente Ordinario di Storia del pensiero politico all’Università degli Studi di Torino, Direttore di Historia Magistra. Rivista di storia critica e di Gramsciana. Rivista internazionale di studi su Antonio Gramsci. In vista delle elezioni comunali di Torino nel 2021, è stato il Candidato Sindaco della “coalizione delle sinistre” cioè Potere al Popolo, Partito Comunista Italiano e Sinistra in Comune, che raggruppa Rifondazione Comunista, Sinistra Anticapitalista, DemA e Torino Ecosolidale.

Lei è appena uscito da una lunga campagna elettorale dal fortissimo stampo culturale e intellettuale. Qual è stato il motivo che l’ha spinto ad accettare questa candidatura? Aspettava il risultato che ha ottenuto?

Ho spiegato più volte che dopo aver per molti anni – decenni! – insegnato la politica (dal punto di vista storico e teorico) all’Università, la proposta di candidarmi ha suscitato in me il desiderio di cimentarmi con la politica pratica, ovvero provare a passare dello stadio di osservatore e studioso a quello di attore. Ma c’era una seconda ragione, inerente alla situazione concreta: ho accettato la candidatura perché la proposta giungeva da un campo politico ampio, che raggrumava quasi interamente le forze della sinistra cittadina. Del resto il fatto che io non fossi, ne fossi stato neppure in passato, iscritto a nessun partito, ha consentito questa avventura, ossia ha fatto sì che le diverse forze individuassero nel sottoscritto un candidato in certo senso “ideale”. Ammetto che il risultato è stato molto deludente, a dispetto dei tantissimi apprezzamenti che ho ricevuto per come ho condotto la campagna, in modo serio e credo rigoroso intellettualmente e onesto politicamente, non demagogico, né sovente cialtronesco come hanno fatto praticamente tutti gli altri candidati. Avendo ricevuto una quantità straordinaria di endorsement di intellettuali e artisti, durante la campagna, e tante dichiarazioni di voto, ero quasi sicuro, anche sulla base dei sondaggi, che fino al lunedi 4 ottobre mi accreditavano di una percentuale che andava dal 3% (soglia minima per entrare in Consiglio comunale) fino addirittura al 5%. Invece mi sono fermato, ci siamo fermati al 2,53%, quindi a un passo dal risultato pieno. Che però abbiamo mancato. Aggiungo che c’è stato un notevole scarto tra i voti dati al sottoscritto e quelli dati ai partiti della Coalizione; ossia ho ricevuto molti voti che non sono stati poi ripetuti sulle varie forze che sostenevano la mia candidatura. Questo significa che il consenso intorno alla mia persona è stato superiore a quello raccolto dai partiti e movimenti che io rappresentavo. Purtroppo ha nuociuto l’estrema frammentazione della sinistra, che si è aggravata nelle settimane della presentazione delle liste quando sono spuntate altre sigle che avevano una caratterizzazione e una denominazione di sinistra radicale e comunista. Ha nuociuto la presenza di una lista che faceva riferimento al teorico dei “beni comuni” che dopo aver presentato il proprio programma come “né di destra, né di sinistra”, mentre cavalcava l’onda no vax e no green pass, negli ultimi giorni ha rivendicato il proprio carattere di sinistra. E ha nuociuto, a monte, la scelta dei cespugli a sinistra del PD che nella precedente tornata elettorale erano nella coalizione di sinistra e stavolta, su indicazione del nazionale, hanno optato per il PD. 

Secondo lei perché nelle periferie torinesi ha vinto l’astensionismo?

Questa è a mio giudizio una sconfitta nella sconfitta, perché io ho insistito ogni giorno in ogni incontro, in qualsiasi circostanza, in tutti gli incontri, ristretti o larghi, nei caffè come nelle piazze, sul tema periferie, e siamo andati in molti di questi posti fuori anzi lontano dal centro, abbiamo interrogato e ascoltato gli abitanti, raccogliendo le loro istanze, le loro proteste, i loro bisogni. Ma questo non è servito, evidentemente: le periferie hanno votato a destra, o semplicemente non hanno votato.  Il disgusto verso la politica in generale, il rifiuto di un gesto – come il deporre una scheda di carta in una scatola di cartone – la sensazione della sua inutilità (“tanto sono tutti uguali…”), la sensazione di abbandono provata da queste persone queste famiglie questi gruppi sociali, ha prevalso. Questo brucia più che il voto a destra.


Non crede che, in Italia, il PD abbia rubato la scena, spacciandosi di sinistra ed attuando politiche di destra, così da dare un’immagine negativa generalizzata della sinistra? 

Il PD da tempo ha cancellato la propria appartenenza al campo della sinistra, usando la formula ambigua del “Centrosinistra”, rubata a una importante esperienza storica dei primi anni Sessanta, già presagio di fallimento, ma che tuttavia riuscì a realizzare lungo due decenni, le più importanti riforme dell’Italia repubblicana. Di fatto questo corrispondeva ad una sostanziale omologazione alla destra sia pure con altri linguaggi, con un personale politico diverso, meno becero, più colto, meno compromesso, meno corrotto, e pratiche con un tasso di volgarità assai minore, e una apertura alle tematiche dei diritti civili, che nella destra (a sua volta diventato Centrodestra per mondarsi dal suo ingombrante passato). In ogni caso è certo che il PD ha recato un danno incalcolabile all’idea stessa di sinistra, non soltanto perché ha dimenticato, volontariamente o involontariamente, i “fondamentali”, ma perché nella pratica politica ha portato avanti sul piano sociale, economico, ambientale, educativo e culturale, istanze difficilmente distinguibili da quelle della destra-destra. Il bipolarismo vagheggiato da Mario Segni, Walter Veltroni, Enrico Letta, Silvio Berlusconi ci propone una falsa alternativa, tra un peggio e un meno peggio. Una situazione angosciante.

  Non crede che vi sia una confusione semiotica di cosa sia la sinistra in questo Paese?

Be’, intanto pochi usano il lemma “sinistra”, ormai soppiantato quasi completamente dalla parola composta, insopportabile e priva di autentico significato, “centrosinistra”, che per pulizia concettuale e lessicale occorrerebbe decisamente smettere di impiegare. Chi è di sinistra, e mi riferisco sia ai militanti o simpatizzanti, sia agli studiosi di pensiero politico, di scienza politica, di sociologia politica, dovrebbe battersi per chiamare “destra” la destra, e “sinistra” la sinistra, facendo un po’ di pulizia concettuale, una operazione necessaria, preliminare. E in secondo luogo occorre battersi per fare nitidamente emergere i tratti propri della sinistra autentica, ossia in sintesi estrema: a) l’uguaglianza come ideale fondamentale a cui tendere nella società e anche nella società internazionale, ossia uguaglianza fra gli individui e fra i popoli; b) una scelta di campo a favore dei ceti deprivilegiati, e dei gruppi subalterni (per i redditi, per la salute, per la casa, per la cultura e il divertimento…); c) il ripudio della guerra; d) l’antifascismo; e) l’opposizione ad ogni specie di imperialismo e colonialismo, e il sostegno alle lotte di liberazione dei popoli da oppressioni interne ed esterne; f) la lotta ad ogni forma di razzismo, tra popoli e tra persone (ivi compresa la lotta culturale al sessismo); g) la salvaguardia dell’ambiente e la protezione della Natura; h) la tutela del patrimonio culturale e artistico. Tutti questi valori non possono essere oggetto di transazione, e vanno conservati contestualmente: essere di sinistra implica accettarli tutti, e sostenerli sempre, non sceglierne qualcuno a seconda delle opportunità e abbandonare gli altri. In particolare per l’Italia che ha generato e conosciuto il fascismo, essere a sinistra significa essere fieramente antifascisti, e data la presenza del Vaticano, occorre sottolineare l’importanza della laicità dello Stato e di tutte le istituzioni, contro le ingerenze della Chiesa cattolica (ma anche di altre agenzie religiose che pur minoritarie pretendono di intervenire nella sfera pubblica dettando condizioni, lanciando anatemi).

Come abbiamo fatto in Italia a passare dal partito comunista più grande in Europa, ad essere l’unico Paese a non avere un partito comunista in Parlamento?

Una domanda che mi inquieta non poco. Una domanda a cui ben pochi saprebbero dare una risposta convincente, e in ogni caso sarebbe una risposta multi-causale. I fatti storici del resto non hanno mai una sola chiave per essere compresi e spiegati. In questo caso dobbiamo guardare alla incredibile, gigantesca mutazione genetica che si è verificata in seno alla dirigenza del Partito comunista italiano, tra la generazione degli anni Venti-Trenta e quella degli anni Quaranta-Cinquanta, anche se già almeno nella seconda metà dei Trenta (per esempio Achille Occhetto, è nato nel 1936) vediamo cominciare a formarsi la generazione che avrebbe poi distrutto il Partito. La dissoluzione avviata en solitaire da Occhetto, senza neppure consultare i maggiorenti del Partito, a pochi giorni dall’apertura della Porta di Brandeburgo, tra Berlino Est e Berlino Ovest (il cosiddetto “crollo del Muro”), nel 1989, e giunta a compimento dopo la farsa dei “circoli” che si interrogavano sulla “cosa”, fu un esito più che un punto di partenza. Il PCI era già cambiato, e Enrico Berlinguer se ne era reso dolorosamente conto nella famosa intervista a Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981. Quando il segretario – l’ultimo degno di quel ruolo – denunciava la trasformazione dei partiti, definendoli “macchine di potere e di clientela”, parlava del suo stesso partito, che del resto egli non era in grado ormai di controllare. Il consumismo, la corruzione, e la perdita dei valori fondanti del comunismo e del socialismo, stavano disegnando già un panorama desertico, nel quale il capitalismo o neocapitalismo come lo si chiamò aveva vinto, o piuttosto stravinto. E la vittoria consisteva esattamente in questo: di aver fatto diventare suoi tifosi, suoi complici, suoi beneficiari, coloro che ne erano gli oppositori, ossia i comunisti. E il Partito che recava quell’insegna, era talmente cambiato, che in fondo l’insegna risultava del tutto fuori luogo.

Come mai la destra in generale continua a prendere consensi? C’è una motivazione politica o culturale?

Anche questa risposta richiede una ricerca multifattoriale, ma forse la motivazione principale è prepolitica e indipendente da fattori culturali. Si tratta, ritengo, prima di tutto del fatto che la destra promette ai ricchi di diventare più ricchi e ai poveri di essere meno poveri. Discorsi essenziali, elementari, direi, che vanno al cuore della questione: gli uomini preferiscono perdere l’onore che non la robba. E la questione economica nella sua dura brutalità precede e scavalca ogni altra. Mentendo la destra acquista consensi, dirottando su nemici inesistenti o esterni le cause delle difficoltà delle diverse classi: gli immigrati, i ladri di strada, i borseggiatori, i vaccini, il passaporto verde, e così via. Il meccanismo è facile: creare paura e offrire la soluzione facile per battere la paura. E la sinistra non è apparsa finora in grado di opporre una narrazione alternativa, convincente, in grado di contrastare quella della destra, anzi è andata nella opposta direzione, pretendendo, stoltamente, di inseguire l’avversario sul suo terreno, con il risultato che le opzioni politiche che dovevano essere alternative sono apparse sempre più simili, quasi indistinguibili e questo ha prodotto ovviamente un’ascesa politica della destra, in termini di consenso. È stupefacente che la sinistra non lo abbia compreso.

In questi anni abbiamo sempre più sentito sul mainstream l’uso retorico dei termini “complottista”, “negazionista” ed altri ancora. La forte polarizzazione isterica dell’opinione pubblica su ogni tema può essere un pericolo per la nostra democrazia? La facilità con cui si categorizza e si etichetta un pensiero può spingere i cittadini ad allontanarsi e a disinteressarsi ancor di più alla politica?

Credo che siano diversi fattori da considerare. Il primo è naturalmente, indubitabilmente, il bassissimo livello culturale della stragrande maggioranza dei cittadini e delle cittadine della nostra Italia: bassa cultura, spesso a livello di seminalfabetismo o di analfabetismo di ritorno, ma anche scarsissima capacità di elaborazione critica, di lettura critica della realtà, di mezzi utili a smascherare le menzogne, le false notizie, le approssimazioni, la fanfaluche, le pseudoverità. Ma la povertà culturale della popolazione italiana si riflette in quella della classe politica. Il secondo fattore tira in ballo la responsabilità del ceto intellettuale che non si occupa affatto di mettere in atto quello sforzo di pedagogia generale auspicato da Gramsci, di aiutare in sostanza i subalterni a farsi classe cosciente, classe “per sé”, che lotta coscientemente per il potere. Il terzo fattore è la disonestà dei media, completamente asserviti ai poteri forti. Se i media fossero indipendenti, e non asserviti in modo impressionante ai loro padroni, se i giornalisti fossero deontologicamente corretti, tutto sarebbe assai diverso, invece contribuiscono da una parte a diffondere notizie non verificate, o a dare spazio a commentatori che sono autentici ciarlatani. Ma hanno un’altra pesante responsabilità: hanno contribuito a gettare discredito sulla politica, favorendo il qualunquismo, l’idea che tutto è uguale a tutto, che anzi “sono tutti uguali”, e che alla politica di professione si dedicano i peggiori, i falliti, i buoni a nulla, quelli senza arte né parte. Il che statisticamente è abbastanza vero, ma occorre che noi insegniamo a distinguere, a valutare caso per caso, e a riabilitare la politica, che è necessaria, perché rimane insostituibile. Invece le cose stanno così. E i partiti, tutti, hanno contribuito variamente, ma pesantemente, tutti a gettare discredito sulla politica.

Domanda da un milione di dollari: come si può rifondare la sinistra con radicalità di contenuti che parli al popolo-classe?

Ci sto riflettendo, sul serio. Non servirà, ma sto stendendo un documento nel quale mi pongo appunto questo interrogativo, questa domanda da un milione di dollari. Quando avrò finito penso di renderlo pubblico, e di avviare una discussione in merito per far rinascere, perché di questo si tratta, una sinistra autentica nel nostro Paese. Può anche darsi che abbandoni il compito che mi sono dato, e che forse è impossibile. E non oso neppure garantire di essere la persona adatta per questo compito. Ma voglio provare almeno a lanciare un sasso nello stagno. E vedere che accade. In ogni caso, chiunque voglia fare un tentativo in questa direzione sarà meritevole di ascolto e aiuto. Credo davvero che siamo a un bivio, per la sinistra italiana: rinascere o perire.