“Contrariamente alle nostre peggiori aspettative, a due mesi dalla presa di Kabul, l’attenzione dell’opinione pubblica è ancora alta. La solidarietà verso gli afghani in generale, e in particolare per le donne afghane, è stata un fenomeno unico nel suo genere, infatti, continuano ad arrivare richieste di aggiornamenti dai media italiani”.

A parlare è Flavia Mariani la responsabile comunicazione dell’associazione Nove Onlus che assieme al COI, al Ministero degli Interni, alla giornalista esperta di Afghanistan Barbara Schiavulli, al Trust “Nel nome della donna”, e ad altre associazioni, dal 16 agosto, giorno dopo della caduta di Kabul in mano ai talebani, tanto si è adoperata per fare evacuare e porre in salvo donne, bambini e tutti i loro collaboratori e collaboratrici che dal 2012 erano impegnati nei tanti progetti che Nove Onlus ha implementato in Afghanistan, in particolare a Kabul. 

“C’è stata una grande reazione collettiva, dalle persone alle istituzioni alle aziende, che si sono messi a disposizione, ancora oggi ci chiedono come poter aiutare. E soprattutto c’è questa doppia attenzione: che cosa sta succedendo alle persone che sono arrivate in Italia, come accogliere quelle che arriveranno? E dall’altra parte, l’attenzione a come si sta sviluppando la situazione in Afghanistan. Direi che la solidarietà e l’indignazione sono riuscite ad attivare le energie positive. Anche le associazioni che di solito in Italia lavorano singolarmente in questa occasione hanno fatto rete. Le Ong sono in attesa di risposte dal  governo e stanno cercando di ottimizzare l’accoglienza e implementare i servizi.  A livello di società civile iniziamo a capire che sì è vero abbiamo più strumenti e più mezzi ma i diritti sono sempre a repentaglio: oggi è successo a loro e domani può succedere a noi.  È una ferita collettiva.  Alla fine, ti rendi conto che la maggioranza della popolazione mondiale non è sufficientemente tutelata e nemmeno riconosciuta come categoria da proteggere.  Non dev’essere necessaria una guerra per ottenere di essere protette.

Mi fai pensare ad un film che ho visto recentemente “Saint Jude” (2019), racconta la storia vera di Judith Wood, avvocatessa in California, che difendeva il caso di una donna afgana fuggita perché perseguitata dai talebani per il fatto di voler studiare.  La sua richiesta di asilo negli Stati Uniti veniva rifiutata- sulla base che non aveva dovuto fuggire da una guerra ne era una perseguitata politica- ma l’avvocata non si diede per vinta, riuscì ad arrivare alla Corte d’Appello e ottenere di cambiare la legge sull’immigrazione che da quella sentenza riconosceva le donne come una categoria perseguitata da proteggere.

La nefasta coincidenza di un’impennata nei femminicidi ha contribuito a creare una sinergia tra le due situazioni: l’attenzione verso le donne afghane che si ritrovano a perdere i loro diritti e le donne italiane che si ritrovano a fare rete per chiedere maggiore protezione contro la violenza. Ci rendiamo conto che c’è bisogno di porre rimedio agli squilibri che esistono all’interno delle nostre società; vedi le proteste dei Black Lives Matter, l’escalation nel razzismo, tematiche che non vedono ancora un vero affrancamento a livello mondiale.  Certo la situazione in Afghanistan è molto più estrema, e rimane la necessità di porre rimedio agli squilibri.

Come Nove Onlus siete impegnate su più fronti, in Italia sul fronte dell’accoglienza delle persone che sono  arrivate -e accoglienza vuol dire mille cose- e poi  il fronte delle negoziazioni con il Ministero per far uscire chi è rimasto e anche affrontare l’emergenza fame che c’è adesso in Afghanistan.

Con il governo stiamo lavorando su tutta una serie di problemi che vanno dalle liste delle persone da far uscire dal paese a come creare dei corridoi umanitari sicuri  per il cibo e per l’assistenza sanitaria, il paese è alla fame e a novembre si stima che il 97% della popolazione sarà sotto la soglia della povertà, le banche e fondi sono bloccati, non ci sono fonti di approvvigionamento e l’inverno è alle porte. Abitualmente l’inverno in Afghanistan è una emergenza, bisogna procurare la legna da ardere altrimenti le famiglie rischiano l’assideramento. A questo proposito stiamo attrezzando una unità mobile, in collaborazione con una Ong che lavora in Afghanistan dal 1968, per arrivare nei quartieri più poveri di Kabul fornendo assistenza sanitaria di base, e siamo pronti ad intervenire con approvvigionamenti di alimenti e di legna,  come abbiamo già fatto lo scorso anno. Ogni associazione negli anni ha creato la sua expertise, le sue reti, ha il suo know-how è bene che ognuna continui a fare al meglio quello che sa fare e invece creare delle sinergie tra le varie Ong.

Sul fronte dell’accoglienza, abbiamo effettuato una profilazione del nostro gruppo di donne dislocate su tutta l’Italia, per individuare le loro potenzialità e occuparci dei loro problemi. C’è chi ha appena partorito, chi ha bambini con handicap più o meno gravi, chi si trova in una situazione di isolamento. All’interno del gruppo ci sono situazioni di estrema vulnerabilità, donne che hanno subìto violenza, donne sole, separate dai mariti. 

 Stiamo avviando la seconda fase dell’accoglienza che vede in primo luogo l’organizzazione di corsi di italiano supplementari, perché la lingua è lo strumento che permette l’inserimento, allieva l’isolamento. Stiamo creando una rete di alleanze solidali con altre associazioni e istituzioni per  implementare l’assistenza linguistica e psicologica e attivare corsi di formazione.  Ci sono già delle aziende che stanno interessandosi per poter offrire un inserimento nei loro organici.  Quello che è importante, è continuare a mantenere una narrativa su queste persone, raccontando le loro storie, dando loro spazio e visibilità.

Queste donne si sentono grate di essere salve, stanno affrontando le difficoltà del cambiamento in tutti i suoi aspetti, alimentare, culturale, linguistico, anche per quelle di loro che parlano inglese non è scontato trovare italiani che lo parlino. Per molte di loro sentirsi salve ha significato buttare via l’hijab, c’è chi l’ha conservato perché non è sicura di quello che il futuro le potrà riservare. Se hanno ancora la famiglia in Afghanistan, non sanno come affrontare la lontananza. Per tutte loro questa è una fonte di dolore inconsolabile. Anche chi è riuscita ad uscire con il marito e i figli, ha lasciato indietro i genitori anziani, le sorelle, i fratelli. Per non parlare poi dei sogni infranti, una vita che avevano progettato, il dolore per averla persa. Però sono donne con delle grandi risorse dal punto di vista umano, hanno un senso della solidarietà, della riconoscenza, della gratitudine quasi impensabili per noi.