La parola d’ordine dei movimenti No Green Pass è , come è noto, “Libertà! Libertà!”. Ci sarebbe molto da scrivere (come abbiamo già fatto e come ancora faremo) su questo concetto vissuto (e urlato) come un assoluto, senza considerare che esso si caratterizza in realtà come una relazione sociale, fondata sulla ricerca, pratica e teoretica, di un sempre difficile e precario equilibrio tra individuo e comunità, tra diritti e doveri, tra valorizzazione di se e responsabilità verso “l’altro”.

Ma in verità, all’interno del movimento, i veri “idealisti della libertà” sono una minoranza. Sono infatti relativamente pochi coloro che credono veramente che il problema sia il Green Pass e l’illegittimità dalla sua imposizione, a prescindere di cosa si pensi sui vaccini e sulla pandemia. La grande maggioranza è in realtà su posizioni No Vax. Per costoro il Green Pass è solo l’ultimo anello del dispiegarsi di un dominio globale che viene spiegato secondo logiche complottiste e negazioniste.

Anche su complottismo e negazionismo ci sarebbe da fare un lungo discorso, in quanto risposte “impotenti”, perché sostanzialmente prive di certezze di verità e di articolate capacità analitiche e senza credibili prospettive di cambiamento, nei confronti della pur giusta esigenza di non piegarsi al comando dell’imperante capitalismo globalizzato.

Stiamo parlando di posizioni minoritarie. Tuttavia la mia preoccupazione è che complottismo e negazionismo possano partorire un figlio minore, una sorta di negazionismo soft. Una forma di riduzionismo che potrebbe propagarsi in più ampi strati di popolazione, producendo minore attenzione alle misure di sicurezza e magari inducendo molti a evitare, per esempio, la terza dose. Come dire: il virus c’è ma alla fine non è tanto catastrofico, e per lui non vale la pena perdere la nostra libertà o anche affrontare i rischi (saranno anche minimi, ma non si sa mai!) di un’altra vaccinazione.

In fondo una forma di riduzionismo potrebbe essere una reazione di adattamento, magari non del tutto consapevole, motivata da quel bisogno di normalità,che credo cresca inevitabilmente dopo anni di grandi rinunce e difficoltà. Così come “il panico” fu la prima reazione all’esplodere della pandemia che metteva in discussione il saputo scorrere delle nostre esistenze. Sarebbe interessante approfondire l’argomento, ma la “psicologia di massa” non è di mia competenza.

Di mia competenza è invece la storia che ho insegnato per tutta la mia vita lavorativa, Ebbene, riflettevo proprio in questi giorni di come le grandi pandemie che hanno accompagnato e fortemente condizionato il cammino degli uomini nei tempi, siano quasi del tutto assenti sui manuali in uso nelle nostre scuole e nelle nostre università. Giusto un paragrafo sulla peste del 300, e praticamente null’altro. Malgrado il fatto che di grandi catastrofi pandemiche si parli in tutti i testi del passato, a partire dalla Bibbia, e poi, per esempio, nel mondo greco: da Tucidide a Platone e Aristotele, fino ai padri della medicina moderna, Ippocrate e Galeno.

A volere approfondire l’argomento si resta innanzitutto impressionati dai numeri. Almeno un terzo della popolazione europea decimata dalla Peste Nera nel 300. Ma secondo altre stime, meno ottimistiche, la popolazione si ridusse da 80 milioni a 30 milioni. Si consideri inoltre che a quei tempi gli uomini circolavano pochissimo e che comunque la peste ritornò in Europa ad ondate successive tra i sei e i vent’anni di intervallo, fino all’inizio del 700 (ancora nel 1720 uccise la metà degli abitanti di Marsiglia). Prima di allora, tra l’anno 500 e il 700 si ebbe “la peste di Giustiniano”, con stimati tra i 50 e i 100 milioni di morti (ho controllato più fonti perché la cosa mi pareva inverosimile). E ancora 10 milioni di morti in India nell’800, fino alla recente epidemia di Spagnola di appena un secolo fa con 50 milioni di morti. Ma tutti questi non sono che esempi.

Se abbiamo insistito sui numeri non è per sensazionalismo, ma perché evidentemente l’impatto di fenomeni di tale portata sull’insieme dei fatti del passato non può essere praticamente pari a zero, come appare nella storia insegnata ai nostri studenti. Ed infatti una storiografia più moderna e attenta ci dice cose diverse. Anche qui a mo’ di puro esempio: Pare che la strage provocata dalla “Peste di Giustiniano “ provocò un massiccio esodo dalle città verso le più sicure campagne, che secondo alcuni potrebbe essere una delle principali cause della nascita del feudalesimo, di cui è nota la vocazione rurale. O ancora: uno dei più grandi misteri della storia, e cioè come sia stato possibile che un pugno di conquistadores poté abbattere i secolari imperi amerindi, potrebbe trovare una spiegazione, o almeno una concausa, nella epidemia di vaiolo che, in quegli anni, uccise almeno tre milioni di indios.

A parte poi andrebbe considerato il grande valore educativo che potrebbe avere la conoscenza, quanto più possibile diffusa a livello di massa, degli effetti, positivi o meno, che ebbero nel passato i vari modi in cui si cercò di contrastare  il diffondersi del male, magari mettendoli a confronto con quelli attuali. Un esempio su tutti: Durante la peste del 300 mentre a Firenze morivano i quattro quinti della popolazione a Milano gli effetti furono molto meno devastanti. Gli storici oggi sono propensi a credere che ciò sia dovuto alla signoria dei Visconti, che imposero misure draconiane, compreso una prima forma di loockdown, seppure limitato alle famiglie degli infetti.

Perché queste strane dimenticanze da parte della storia? La risposta sta molto probabilmente nella logica fortemente antropocentrica che caratterizza la cultura oggi dominante a livello globale, e che da sempre sta a fondamento del mondo occidentale. La storia è vista innanzitutto e principalmente come il prodotto di relazioni semplicemente umane, all’interno delle quali la natura è intesa nel senso ristretto di “natura umana”, oppure in senso più ampio, come puro strumento di dominio, funzionale all’affermarsi della nostra specie. Nella dimensione tradizionale e premoderna la natura è funzionale al rapporto uomo-Dio, e il prodursi di eventuali malefici è solo espressione della volontà divina contro l’umano peccare . Nella cultura moderna d’origine illuminista la natura diventa invece strumento di sfruttamento per il continuo farsi del progresso umano. In ogni caso il dominio dell’uomo sulla natura è considerato un fatto destinale, un dato assiomatico. In questo senso  l’idea della fragilità dell’uomo di fronte alla potenza della natura non può essere neppure presa in considerazione se non come puro incidente; come eccezione e non come regola; come stato di crisi sempre superabile e risolvibile. Puro disturbo o rumore di fondo nell’eterno riproporsi della grandezza umana. La potenza della natura non ha luogo nella scrittura della storia, almeno in quella non specialistica e finalizzata ad una educazione di massa. La conseguenza è un diffuso senso comune di presunzione e un falso pudore che ci spinge a nascondere le fragilità umane.

E’ vero che oggi una nuova consapevolezza dei rischi ambientali provocati dall’uomo è parte del nostro sentire. Tuttavia se ci fate caso espressioni come “stiamo uccidendo la madre terra” sono, seppure in modo del tutto inconsapevole, figlie del delirio d’onnipotenza della nostra storia. L’uomo non sta distruggendo la terra, ma semplicemente il proprio habitat, e dunque sta distruggendo se stesso. La terra sopravviverà per i prossimi quattro miliardi e mezzo di anni, ammenochè un impatto cosmico non la riduca in polvere. Il che è cosa ben diversa di un “banale” effetto serra, al quale, a differenza di noi umani, si può adattare benissimo.

Concludendo penso che oggi una sottovalutazione della possibile capacità distruttiva della natura, e soprattutto, e nello specifico, la diffusa e pressocchè totale ignoranza degli effetti che nella storia hanno avuto le precedenti pandemie, anche molto più catastrofiche di quella attuale, innanzitutto per l’assenza di quelle misure di sicurezza che sono oggi a nostra disposizione, possano rappresentare un concreto pericolo di spinta al riduzionismo e alla banalizzazione della gravità della situazione.

A questo proposito i mezzi di informazione di massa e la scuola potrebbero fare molto. Ma non sono ottimista. Per i professionisti dell’informazione il passato non fa notizia. E per quanto riguarda la scuola si è transitati dai banchi a rotelle del precedente ministro all’assoluto mutismo di quello attuale.

Perché? Una forma di riduzionismo storico? La risposta che mi sono dato è SI!