Ci sono alcune costanti nell’intervistare uomini o donne che hanno più di 75 anni e che hanno avuto a che fare con la vita in fabbrica. Si sente palpabile la struggente nostalgia per operai o operaie che rendevano umani quei luoghi spesso malsani, alienanti, distruttivi. Figure che mantenevano la dignità, lottavano, difendevano i diritti propri e quelli altrui, riconquistavano centimetri e secondi, strappandoli a spazi e tempi che si volevano ridotti all’osso dal padrone. Anche il termine “padrone” sembra desueto, ma restituisce una realtà dura e cruda e fa maledettamente chiarezza.

Tutto ciò emerge dalle parole di Tullio, come era successo con l’intervista fatta ad Emilio Molinari.

Tullio Quaianni è un medico che negli anni ‘70 si specializza in medicina del lavoro e per 35 anni filati entra ed esce (accompagnato sempre da un tecnico) da migliaia di piccole, medie e grandi aziende della Brianza, per verificare le condizioni di lavoro. Piccoli mondi che pretendevano di restare chiusi e impermeabili.

Si coglie subito che il suo lavoro è variato nel corso degli anni: quanto più il movimento operaio era forte, tanto più si potevano far valere i diritti e quindi la sicurezza. Nel suo racconto si coglie lo sfilacciarsi nel corso degli anni di quella che lui stesso definisce “la soggettività operaia” e quindi il ridursi di un’attività carica di senso come la sua, in un compilare moduli e rispondere a fiumi di carta e burocrazia.

“Nei primi tempi la legislazione era precisa per molte attività, ma non esisteva l’obbligo del datore di lavoro di farti accedere alle sue proprietà, il controllo dell’applicazione di quelle norme approvate nel 1956 (una per i cantieri edili e l’altra per le fabbriche) era delegato a lui. Quindi era tutto da costruire con trattative locali, a volte perfino con mandato del sindaco. Si poteva venire chiamati dagli stessi operai che denunciavano una situazione nociva per la salute, o condizioni di rischio.

Ricordo delle fabbriche tessili dove scoprimmo una gran quantità di aborti bianchi, donne che in certi momenti dovevano operare quasi distese, a pancia in giù sui telai, sottoposte a rumore e vibrazioni. Ricordo la loro reticenza a raccontare, tanto più a un uomo, quello che succedeva in fabbrica. Ricordo la scoperta di blocchi di sicurezza delle macchine acquistati ma non utilizzati per velocizzare il lavoro e anche l’inserimento di pezzetti metallici per bloccare le sicurezze. Le catene di montaggio, i tempisti, i ritmi, i bracci di ferro dei sindacalisti per migliorare le condizioni di lavoro. Tutto dipendeva da due condizioni che allora chiamavamo così: la spinta sindacale e la soggettività operaia. Molte volte non si entrava in una fabbrica se il padrone non voleva. La lotta iniziava già da lì.

Poi è arrivata la fondamentale riforma sanitaria nel 1978, dove i passi avanti sono stati parecchi, anche se abbiamo dovuto aspettare un paio d’anni per i decreti attuativi. I padroni cercavano di mettere i bastoni tra le ruote. Il problema è che avevamo da “controllare” 17 Comuni (nell’area che faceva capo a Desio), con 17.000 fabbriche piccole e grandi. Ho fatto un conto che dopo 35 anni di lavoro ne avevamo visitate almeno una volta circa 5.000, troppo poche. La normativa del 1978 faceva si che l’Ispettorato del Lavoro andasse a verificare le condizioni di lavoro solo nell’edilizia (e sott’acqua per i cassonisti) ed era troppo poco. Rispetto a tutte le altre aziende doveva solo preoccuparsi del rispetto della parte amministrativa, per esempio se c’era lavoro nero. In pochi casi la magistratura aveva richiesto un intervento su queste tematiche.

Eravamo noi della struttura sanitaria che potevamo entrare per verificare le condizioni di lavoro rispetto alla salute. A volte ci arrivavano segnalazioni dai vicini, che vedevano strane nubi uscire; noi correvamo e scoprivamo la presenza di amianto che se andava per il quartiere.

Ricordo con commozione un operaio dell’Autobianchi di Desio: era talmente bravo a discutere e ragionare sui ritmi di lavoro che dal sindacato lo chiamavano in altre città quando c’era da parlare di tempi e ritmi. O quando in una ditta dove erano state assunte delle persone con handicap ed una di queste venne presa a esempio dai tempisti per proporre dei ritmi incredibili agli altri: il problema è che quella persona aveva seri problemi psichici e lavorava come una macchina! O quando arrivavano pressioni da consiglieri comunali, fin anche regionali, per farci sapere che “in quella ditta lavorano bene, sono bravi. Cosa andate a cercare?”

Tullio racconta, ne ha molta voglia, si sente, salta da piccoli esempi che descrivono e colorano la situazione a problematiche complessive che cerca di spiegare, ma non è facile. È chiaro che vuole descrivere un clima che piano piano è cambiato, con gli anni ’80 e poi ’90 e via via. “Le normative europee, la 626 del 1994 e il decreto 81 del 2008, senza volerlo ovviamente, hanno lasciato terreno fertile per chi voleva trasformare gli obblighi in atti burocratici. La burocrazia ha preso il sopravvento. I fogli da compilare, sia da parte del datore di lavoro che dai controllori delle ASL, aumentavano vertiginosamente, svuotando l’obbligo principale, cioè rispettare la legge. Corsi per la sicurezza fatti a persone che lavoravano in campi completamente diversi, addetti alla sicurezza nominati dal padrone, nelle piccole aziende spesso un parente; addetti alla sicurezza che lavoravano in ufficio e sapevano poco o nulla della produzione, delle macchine. E poi piani per la sicurezza (il “documento di valutazione dei rischi”) identici in decine di fabbriche; cambiava solo il nome della azienda.”

Tullio racconta come solo la coesione operaia e la solidarietà arginassero la strapotenza padronale e ponessero dei limiti, dei paletti. La riduzione dei delegati più coraggiosi e cocciuti, a volte mandati in reparti confino per punizione e il crescere di figure asservite e spaventate hanno ridotto la sicurezza.

“Dalle statistiche sembra che il 40% degli infortuni mortali sia dovuto a errori degli operai stessi, ma in realtà bisogna vedere le condizioni alle quali si viene portati. La fretta, l’accelerazione dei ritmi, la stanchezza, l’obbligo di finire entro un dato tempo aumentano esponenzialmente i rischi e i pericoli. Questo in tutti i comparti produttivi, soprattutto in quelli dove il pericolo è dietro l’angolo, come l’edilizia. Minacce e paure fanno il resto. E poi a volte c’entra la leggerezza degli operai stessi, che magari lavorando al tornio non mettono la tuta da lavoro (definibile dispositivo di protezione individuale) e il maglione che indossano viene preso dentro dalle bavette di metallo che si sono formate e girano veloci trascinandoti via il braccio.”

Dai suoi discorsi si capisce che spesso le condizioni peggiori si riscontrano nelle piccole e medie aziende, dove l’approssimazione è maggiore, dove il ricatto è più frequente, dove le norme sono più aggirate.

Tullio è andato in pensione nel 2011 a 67 anni di età; oggi scrive romanzi gialli, se li stampa a proprie spese e li regala agli amici, ma la sua più recente passione è documentare, attraverso la fotografia, gli aspetti poco noti di tipo artistico, architettonico, culturale, sociale di Milano. Le foto, montate in filmati, costituiscono la serie “Milano da scoprire”, presente in YouTube e giunta a 425 video. https://www.youtube.com/user/quaianni1944

P.S. Quando ci risentiamo per rivedere l’intervista aggiunge: “Sai che quest’anno sono andato a trovare i miei vecchi colleghi e li ho trovati tutti davanti al computer: “Cosa fate?” ho chiesto. “Nessuno esce?” “Quest’anno la Regione Lombardia ci ha precettato, dobbiamo verificare i tracciamenti e così siamo qui a fare telefonare dalla mattina alla sera…” mi hanno risposto. Bene, così in questo periodo di Covid nessuno è andato a fare i controlli di un tempo.