Emilio Molinari, classe 1939, chiunque abbia frequentato i movimenti a Milano negli ultimi 50 anni lo ricorda. Lungo, magro, baffi bianchi, sorridente.

Raccontami la tua storia

Sono nato a Milano, ricordo da bimbo la guerra, i bombardamenti, quando si andava nelle cascine fuori città e Pippo, questo aereo che oramai conoscevamo tutti, passava a mitragliarci. Rammento una notte, quando sfollati nelle cascine guardavamo Milano tutta illuminata per un incendio generale dopo un grande bombardamento.

Vengo da una famiglia operaia; mio padre fiancheggiava la Resistenza, ogni tanto nascondevamo qualcuno, o lo vedevo piegare dei volantini che il giorno dopo avrebbero distribuito alla Borletti dove aveva lavorato mia madre. Ricordo i suoi compagni che venivano dalla montagna o erano in procinto di andarci. Ho qualche immagine di Albino Albico, un giovane dei Gruppi di Azione Partigiana che venne preso, torturato e ammazzato. Poco prima della fine della guerra mio padre sparì per due settimane; lo vedemmo arrivare con una colonna di partigiani, su un camion, sorridente, armato. Avevamo vinto.

Mio padre morì nel ’47 e dopo un mese nacque mio fratello. Mia madre rimase sola, col suo lavoro in fabbrica, alla Montecatini e tre figli da allevare. Io feci le elementari vicino a dove lavorava lei, in centro, in via della Spiga. Ero il più povero, in mezzo ai figli dei ricchi. A 10 anni, finite le elementari, venni avviato alla Borletti. Era un passaggio obbligato, una tradizione: se avevi un genitore nella fabbrica, a 10 anni potevi entrare nella scuola aziendale.  Se ero stato un marziano nella scuola del centro di Milano, lo ero ancora di più in quella aziendale, dato che venivo da una scuola con un’impostazione culturale assai borghese. Divenni quindi apprendista in reparto e poi un operaio fatto e finito, specializzato, metalmeccanico di precisione. La mia prima paga me la ricordo: era settimanale, ci si metteva tutti in fila davanti a un’impiegata che aveva davanti a sé la cassetta. A 14 anni presi 3.500 lire.

Eravamo poco più che bambini, ci chiamavano “i Pierini”. Venivamo affidati a un operaio: se capitavi bene ti insegnava, sennò ti usava, eri al suo servizio. La Borletti, che faceva soprattutto macchine da cucire, ma anche parti di armamenti, si trovava nella zona di via Washington e aveva circa 7.000 operai, in gran parte donne. Negli anni ’60 la maggior parte di loro erano ex contadine del Magentino, poi arrivarono molte ragazze del Sud Italia, soprattutto dalla Puglia. Io ero comunista per discendenza.

Verso i 17 anni iniziai a frequentare le scuole serali, sostenuto dalla fabbrica che ci concedeva di uscire un’ora prima e dava un paio di settimane di permesso all’anno. Così uscivo di casa alle 7 e mezza del mattino, facevo l’orario pieno in fabbrica, sabato compreso, e poi alle 17 andavo direttamente a scuola imbottito di panini che mi preparava mia madre. La mensa era gigantesca, ricordo che si scendeva in questo spazio dove c’erano 3.000 scodelle di metallo già riempite. Il minestrone non lo sopportavo, era un incubo, c’era dentro una cotica che sembrava una pantegana. Rientravo a casa poco prima di mezzanotte e lì mi aspettava uno zabaione fatto sempre da mia mamma. Anni intensi, un po’ di tempo alla domenica per ballare a casa di qualche amico. Ricordo dei professori di italiano e di storia che lottavano “controcorrente” per spiegare la storia e la cultura a noi, giovani addestrati al lavoro e desiderosi solo di imparare le materie tecniche. Molti di quegli insegnanti per via delle loro idee politiche non erano ben accetti nelle scuole diurne, ma con noi recuperavano la loro e la nostra dignità.

In fabbrica c’erano operai con una grande umanità e capacità di formarci. Ci avviavano al mondo, non solo alle lotte, ma anche alle relazioni, con le ragazze per esempio. A loro modo erano degli educatori formidabili, che formavano alla vita. C’era una solidarietà intensa, se qualcuna o qualcuno della fabbrica aspettava un bambino e la situazione non lo permetteva, tra tutti si faceva una colletta per trovare i soldi per abortire clandestinamente.

Ho frequentato l’istituto per periti industriali dai 17 ai 22 anni; è stata dura, durissima, si andava a scuola anche la domenica mattina. Queste scuole, tutte maschili, erano in parte finanziate dalle aziende che ci tenevano moltissimo a che fossero serie e selettive (soprattutto nelle materie meccaniche-tecnologiche). Alla fine sono diventato perito industriale e sono passato a essere un tecnico, un impiegato. Disegnavo, progettavo. Eravamo passati dall’altra parte del vetro, ma i rapporti coi miei vecchi compagni operai erano buoni; ero uno di loro, cresciuto fin da bambino in mezzo a loro.

Quando sono cominciate le lotte nelle fabbriche?

La lotta degli elettromeccanici milanesi del 1961-62 e il contratto dei metalmeccanici del ’63 sono stati una sorta di battesimo, un anno intenso di scioperi durissimi. I picchetti li faceva la polizia che si piazzava davanti agli ingressi e creava un corridoio perché gli impiegati entrassero. E dietro di loro, le donne, le operaie che gridavano. Ricordi la scena de “la battaglia di Algeri” con le donne che gridano? Ecco, era così. Ricordo che quella volta non ce la feci a entrare. Dei mille e passa impiegati, quasi tutti crumiri e democristiani, non entrammo in quattro. Col mio camice, mi unii al corteo; non c’ero abituato e fu emozionante. Lì iniziò il mio desiderio di capire di più. Mi iscrissi anche al sindacato e al partito, ma le sezioni erano deprimenti. Era più viva la FIM Cisl. La lotta nelle fabbriche invece cresceva. C’erano cortei enormi, potenti, la polizia caricava, a Sesto San Giovanni, all’Alfa Romeo, da noi alla Borletti. C’era la Celere preparata per questo, camionette che salivano sui marciapiedi, ma la determinazione era tanta, la tensione altissima. Fu una lotta lunghissima, estenuante, ma che diventò esemplare. Per poco non “ci scappò il morto”, ma non ci tiranno indietro. Quegli operai non teorizzavano e non cercavano la violenza. Se si difendevano e rispondevano questo era frutto della loro esasperazione. Alla fine vincemmo.

Nel 1966 si poteva immaginare che cosa sarebbe successo di lì a due o tre anni?

No, per nulla. Fu un crescendo. C’erano la guerra in Vietnam, Cuba, la morte di Che Guevara nel ’67, le lotte dei neri d’America. Leggevamo di tutto… e poi il movimento, che crebbe rapidamente. L’incontro con gli studenti, la formazione dei sindacati di base, i CUB, tra i metalmeccanici della Borletti, la loro diffusione.

Una delle premesse del ‘68 fu una lotta formidabile degli impiegati della Siemens, della Borletti, della Philips, della Snam e del centro direzionale di Milano. Contro gli impiegati, che erano la struttura amministrativa e progettuale dell’azienda, persino Borletti, fascista dichiarato, non ebbe il coraggio di usare il pugno duro come con gli operai.

E’ importante sottolineare che in quegli anni non c’erano problemi di occupazione e questo ci dava una grande forza collettiva e individuale. Ricevetti più di una volta una proposta da un’altra azienda che mi offriva di più: lo raccontai e pur di tenermi mi aumentarono immediatamente lo stipendio. Noi tecnici eravamo preziosi.

Nel 1966 ti sei sposato

Facemmo la nostra piccola rivoluzione sposandoci senza tanti parenti e questo fece incazzare tutti. Andammo a mangiare in una normalissima trattoria in una decina di persone. Non potevamo non sposarci in chiesa, perché mia suocera si sarebbe suicidata. Mia moglie era figlia di operai, suo padre era un muratore, veniva da Cerignola, era forse l’unico democristiano di Cerignola dove c’era una grande tradizione comunista; era un uomo di una grande bontà e parlava di Di Vittorio (comunista, suo conterraneo) come di “un santo”. In fondo anche mia madre, per quanto comunista e anticlericale, avrebbe sofferto se non ci fossimo sposati in chiesa. Andammo a vivere a Cornaredo, in piena campagna, si faceva il bagno nei fontanili, poi nel ’71 l’impegno politico era tale che siamo tornati a Milano, al Lorenteggio, 33 mq in via dei Giacinti. Il padrone di casa era un vecchio socialista; quando ci furono gli anni duri, in cui era bene essere accompagnati a casa, alla mattina mi diceva: “Puoi uscire, tutto tranquillo…”

E poi arrivò il ‘68

Ricordo riunioni su riunioni. Lotte, scioperi, a volte articolati: scioperavi mezz’ora e lavoravi mezz’ora e avanti così. Spaccavi i maroni al padrone in una maniera incredibile. Ricordo il primo volantino, critico anche col sindacato; lo facemmo distribuire agli studenti, ma nacque dopo lunghe analisi e discussioni tra i lavoratori. Da allora scrivere un volantino divenne ogni volta un parto. Era un metodo, in cerca anche di un nuovo linguaggio, passava per tante mani, tanti occhi, ma alla fine mostrava la nostra vita, le angherie che subivamo. Descrivevamo i dettagli dei soprusi, della violenza dei ritmi che ci imponevano, del cottimo, dei capireparto, dei marca-tempo. Quando distribuivi quei volantini, non ne veniva buttato via uno, tutti vi si riconoscevano e lo leggevano. Il sindacato classico si era spento; molti erano diventati burocrati, la maggior preoccupazione era organizzare la lotteria di Natale per tirar su soldi.

Alla Borletti le donne, le operaie, erano agguerrite, alcune erano dei veri capi-popolo. Dall’altra parte i poliziotti potevano anche essere dei vicini di casa, abitavano negli stessi quartieri popolari. Quelli della Celere invece erano diversi, addestrati a intervenire negli scioperi; li chiamavamo “gli Scelbini”. Credo che “lo scontro interno” sia stato soprattutto alla Fiat dove c’erano migliaia di sardi, sia tra gli operai che tra le cosiddette “forze dell’ordine”.

Nel ’69 scoppiò la bomba di Piazza Fontana

Sì, quel pomeriggio eravamo in riunione nel nostro scantinato. Fu un duro colpo, ma la nostra interpretazione fu semplice, istintiva, immediata: “Sono stati i padroni.” Si respinse subito l’idea che fossero stati gli anarchici. Era una bomba contro le nostre lotte, perché stavano ottenendo cose che non si erano mai viste. La risposta fu enorme, per i funerali si fermò tutta la città.  Piazza del Duomo e le vie intorno traboccavano, c’era un silenzio impressionante. Non avrebbero vinto loro e così fu. Il movimento, col suo epicentro a Milano, si rialzò. Dire ora: “Sono stati i fascisti” è una semplificazione ancor maggiore di quella che facemmo allora.

Furono anni intensi, di grandi e profonde conquiste. Nel 1974 Avanguardia Operaia, di cui facevo parte fin dall’inizio, mi propose di lavorare a tempo pieno. Avrei guadagnato la metà, ma i miei dubbi erano altri: lasciare i compagni in fabbrica, cosa avrebbero pensato. Furono gli operai stessi della Borletti a dirmi che si vedeva che avevo la testa altrove. A volte c’erano errori nei miei progetti e affettuosamente me li facevano notare. In fondo ero sempre il “Pierino” che era venuto su con loro. Per progettare bisognava essere concentrati e io non lo ero più.

Nel 1975 sei diventato Consigliere Comunale

Sì, come frutto di un’unificazione complicata e sofferta tra noi di AO, il gruppo del Manifesto e il PDUP di Vittorio Foa (Lotta Continua si era tirata fuori e dopo poco si sciolse…). Poi c’è stato tutto il periodo in Democrazia Proletaria, anni non facili. Nel ’75 siamo entrati in tre come consiglieri comunali a Milano: io, Aurelio Cipriani, che veniva dalle occupazioni delle case, molto bravo e Raffaele Degrada, critico d’arte, ex comandante partigiano, bravissimo. Se fuori tutti litigavano, noi eravamo molto affiatati; eravamo come i tre porcellini!

Cademmo nella trappola dell’”antifascismo militante”, che a tratti ci metteva sullo stesso piano delle violenze che subivamo. Questo ci faceva perdere consenso e allontanava molta gente. Dava il fianco alla teoria degli opposti estremismi, che riduceva il tutto a uno scontro di piazza e in più legittimava il potere.

Poi arrivò la lotta armata, ma cominciò anche a emergere la questione ambientale

Sì, a Milano succedeva di tutto in quegli anni, era il centro. La cultura della violenza cercata, teorizzata e diffusa ci ha danneggiato tutti. La lotta armata fu una tragica deriva di pochi e produsse pesanti conseguenze sul movimento. Eppure credo che, paradossalmente, l’immaginario della gente sia stato più colpito dalla violenza diffusa, dalle macchine incendiate e dalle vetrine rotte che non dalla lotta armata vera e propria.

C’è da dire che in quelle lotte l’ambiente, i limiti dello sviluppo non li avevamo proprio presenti; nessuno aveva una strategia vera e propria. Arrivammo fin dove potemmo, poi si cominciò ad arretrare. Io colsi a poco a poco l’importanza della questione ambientale, che in un primo tempo nel movimento operaio e studentesco era mancata completamente. In precedenza ci eravamo occupati al massimo della salute in fabbrica. Ricordo che facemmo un’inchiesta capillare, intervistando 1.500 operaie, con medici, universitari, psicologi, una notizia ripresa solo da “Il Giorno”. Venivano fuori soprattutto le malattie psicologiche dovute al ritmo di lavoro. Insonnia, rapporti familiari che si deterioravano, intolleranze, e poi disturbi veri e propri come emicranie, dolori apparentemente reumatici e muscolari. Il disagio, il malessere era tanto. Queste inchieste producevano due effetti: pretendere e ottenere ritmi differenti, avere delle pause, ma anche un senso di liberazione. Nel ’72 si fece di tutto per eliminare il cottimo. Fu una lotta durissima che iniziò alla Borletti, ma poi si estese ad altre fabbriche con caratteristiche simili: la Autelco, la Grundig, la Philips. Loro ci riuscirono, noi no; Borletti si era impuntato. Eppure le provammo tutte: mesi di sciopero, picchetti anche di notte, sebbene la fabbrica fosse chiusa, perché non venissero a ritirare i pezzi dal magazzino.

Aveste mai timori di un colpo di stato, tipo Cile?

Si. Noi pensavamo che Allende fosse stato troppo morbido e non avesse armato i contadini e gli operai. Certo dopo il Cile questa idea, espressa da Berlinguer, che non bastasse vincere con il 51%, era diffusa. Il pericolo si avvertiva, tant’è che tutti noi, seppure non credessimo né nella lotta armata, né nella clandestinità, eravamo pronti con delle vie di fuga, verso la Jugoslavia per esempio. Ogni tanto arrivava la notizia che era meglio dormire altrove.

Quando nel 1990 si seppe dell’esistenza della struttura di Gladio rimaneste sorpresi?

Si. Potevamo immaginare che ci fosse una struttura predisposta alle provocazioni e alle infiltrazioni, ma non l’esistenza di un settore clandestino dello Stato che studiava e si preparava militarmente.

La Borletti esiste ancora?

No; nel ’78 è iniziato lo smantellamento. Prima c’è stato un forte trasferimento produttivo a Corbetta. E’ stata in parte assorbita dalla Fiat e dalla Valsella per il settore delle armi. La storia della famiglia Borletti sarebbe da raccontare in un film; i fratelli Borletti sono finiti male, spesso tragicamente.

Dopo due ore di fitto dialogo ci fermiamo; siamo stanchi, dovremo continuare un’altra volta. Mi sembra che Emilio sia contento: ricordare, ricostruire, essere ascoltati, lasciare memoria fa bene. Nulla è stato inutile, in una vita spesa a lottare.

Al suo fianco, durante l’intervista, non vedo, ma colgo la presenza di Tina (nella foto). Sono stati insieme una vita intera, da quel matrimonio in chiesa di 55 anni fa, ai bagni nei fontanili, fino a oggi. Non hanno avuto figli. Emilio confessa che è il suo grande cruccio; è soddisfatto della sua vita, ma non avere marmocchi intorno come nonno lo fa soffrire quasi di più adesso… “Racconterei ai miei nipoti quello che sto raccontando a te…”