«La conosci questa canzone? Ha un testo bellissimo». «No, di che parla? Non capisco». «È la storia di Sante Caserio, un anarchico milanese emigrato in Francia e ghigliottinato». Un dialogo fra due ragazze, forse neanche maggiorenni, mentre dal palco montato nella stracolma Piazza Alimonda (Piazza Carlo Giuliani, ragazzo) si alternavano musicisti e testimonianze. Una delle due accennava il ritornello della ballata, in sintonia emotiva perfetta con quella piazza terribile e maledetta.

Vent’anni dopo i giorni della contestazione al G8, dei tanti argomenti e delle ragioni giuste portate nella città, delle gabbie che chiudevano la “zona rossa” in cui erano asserragliati i potenti, per difendersi da decine di migliaia di uomini e donne di ogni età, l’aria era contemporaneamente diversa e uguale. Diversa perché erano (eravamo) in tante e tanti i reduci da quelle giornate tremende, che segnarono una cesura democratica non ancora chiusa. Se volessimo scegliere una data simbolica dopo l’uccisione di Carlo, la mattanza della scuola Diaz e il carcere delle torture di Bolzaneto, nulla più è stato uguale. La paura mista alla rabbia con cui ripartimmo non è passata. E non solo in vent’anni siamo riusciti a frammentarci, scegliere strade per entrare nel sistema o per estraniarsi completamente dal presente, costruire muri al punto da far diventare “zone rosse” anche le nostre appartenenze, ma chi comandava allora capì benissimo che il momento era giunto, che si poteva accelerare un percorso di riduzione degli spazi di agibilità democratica in ogni luogo.

Un lungo elenco: nel 2001 l’intervento militare in Afghanistan e l’allarme terrorismo con cui ci si convince che la perdita di libertà vale meno della perdita di “sicurezza”. Poi la legge Bossi Fini, sul mercato del lavoro dei e delle migranti, vero scempio giuridico di cui ancora oggi si pagano le conseguenze. E a seguire: pacchetti sicurezza, sgomberi, ordinanze contro i poveri emanate da sindaci di centro destra e di centro sinistra, contrasto illegale a ogni tentativo di entrare in Europa se non attraverso canali di sfruttamento interno che via via si riducevano. La crisi del 2008 ha permesso di dare un’ulteriore stretta agli spazi di libertà, i sistemi elettorali sempre più escludenti delle forze politiche considerate non compatibili con la governabilità, strati su strati di leggi fino ai decreti Salvini, resi ancora più chirurgici nella loro pervasività da chi oggi governa al Viminale. Ma non basta. Oggi più che allora la repressione di ogni forma di dissenso si lega intimamente con una gestione dei rapporti di lavoro spesso paraschiavisti e la distribuzione delle ricchezze ha raggiunto una concentrazione piramidale che vent’anni fa sarebbe parsa inaccettabile. E questo mentre il pianeta intero sembra percorrere il “miglio verde” del condannato a morte per crimini ambientali.

L’Italia è forse uno dei paesi occidentali che da Genova in poi ha visto anche sparire o soprattutto spezzettarsi ogni forma di conflittualità sociale e politica in grado di agire con una prospettiva. Spesso vertenze generose, forme di opposizioni alle devastazioni ambientali, alle delocalizzazioni, ai risultati prodotti da una logica del profitto prima di tutto di cui abbiamo visto i risultati più osceni con la pandemia ancora in corso, ma poca, insufficiente e dispersa l’opposizione sociale, quasi inesistente e fuori dalle istituzioni quella politica. In vent’anni le istituzioni sono divenute totalmente impermeabili rispetto a quanto accadeva fuori e contemporaneamente il circuito dell’informazione mainstream si è spremuto e continua a farlo per tessere le lodi di un modello di sviluppo e dei suoi tristi personaggi che ci portano allegramente verso il baratro ballando sul Titanic delle vittorie sportive.

Questo ha molto a che fare con Genova, con piazza Alimonda, con i contenuti di vent’anni fa su cui avevamo totalmente ragione. Ma non possiamo cavarcela pensando che repressione, mala informazione e mala gestione politica siano gli unici responsabili di quella che è troppo semplificativo definire come sconfitta. I contenuti e le convergenze su cui ci si è incontrati nelle due assemblee (una nazionale e una internazionale) che hanno preceduto l’appuntamento di Piazza Alimonda possono essere un punto di ripartenza forte. Hanno coagulato saperi, approcci, punti di vista e tematiche complementari l’una con l’altra e porteranno ad una grande mobilitazione contro il G20 a Roma il 30 ottobre. Potrà questa e potranno altri appuntamenti riaprire percorsi? Bisogna rischiarsela sapendo che è urgente e necessario. Bisogna rischiarsela sapendo che potrà avere senso e futuro a condizione di essere in grado di parlare, alla pari, con le due giovani citate all’inizio, con le tante e i tanti come loro che anche se vent’anni fa non c’erano hanno sentito il bisogno di ritrovarsi in una piazza divenuta comunque simbolo. E questo non solo per un salutare ricambio generazionale, ma perché presente e futuro hanno bisogno di tenere insieme esperienza e voglia di costruire non ripetendo gli errori passati. Una ricostruzione che è politica, culturale, antropologica per certi versi. Difficile capire se saremo all’altezza di non far prevalere la zavorra del nostro passato mettendoci invece a disposizione di chi rialza la testa. Difficile, ma è l’unica strada percorribile. Piazza Alimonda ce lo insegna.

Foto di Andrea Mancuso