Partiamo con un fatto, probabilmente il dato più evidente che questa pandemia da COVID-19 ci ha portato ad osservare: non siamo in grado di gestire e ridurre gli effetti della pandemia senza in qualche modo alterare l’andamento economico del Paese. Questa situazione è il preludio ad una scelta etica, problematica a prescindere, espressa dal tentativo di quantificare economicamente le vite umane: quanti morti siamo disposti ad accettare per garantire la stabilità economica?

Indipendentemente dalla risposta che decidiamo di (e se) dare al quesito, ciò che resta innegabile è che la crisi economica e sociale aperta nell’ultimo anno segnerà la nostra comunità per un periodo estremamente lungo, e che il modo nel quale ne usciremo dipenderà molto dall’approccio che verrà dato al processo di svolta. Sta quindi a noi decidere i binari sui quali impostare la ripresa post-COVID-19, quali valori mettere al centro studiando allo stesso tempo strategie per la loro implementazione. Nonostante la voglia di ripartire e di mettersi alle spalle la crisi sia comprensibilmente impellente, credo sia fondamentale fermarsi a riflettere in maniera approfondita su questo punto. Questo per due ragioni: prima di tutto perché è certamente più difficile cambiare in corsa piuttosto che scegliere accuratamente una strada e seguirla, e in secondo luogo, perché le scelte che facciamo ora e la direzione che diamo a questa rinascita ci condizioneranno a lungo. A questo proposito, dobbiamo partire dal presupposto che ogni progetto di cambiamento parte con una reazione di un certo tipo verso ciò che c’era prima; in questo caso, parliamo del modello di sviluppo che ci ha indicato la strada a partire dal secondo dopoguerra. Questo modello, capitalista e neoliberista, nonché vero e proprio faro eretto dagli Stati Uniti d’America, poggia le sue basi economiche sulla teoria della modernizzazione di W. W. Rostow2 e quelle politiche sul celebre “discorso dei quattro punti” del presidente statunitense Harry S. Truman3.

Ebbene, gli ultimi 60 anni ci hanno insegnato che questo modello non è sostenibile: il progresso promesso dai cosiddetti paesi sviluppati, gli aiuti ed i progetti messi in atto in quelli sottosviluppati, semplicemente non funzionano. Ciò è vero non solo dal punto di vista economico (la presente crisi ne è un esempio, ma anche le precedenti recessioni lo confermano), ma anche e soprattutto da quello ambientale. Sembra passata un’eternità, ma solo a gennaio dell’anno scorso parlavamo degli incendi in Australia, della devastazione della Foresta Amazzonica o dello scioglimento dei ghiacci perenni ai Poli (e la lista potrebbe continuare ancora molto a lungo).

Alla luce di ciò, mi viene da pensare che il problema non siano i metodi che usiamo per fare fronte alle molteplici declinazioni di questa crisi, ma sia invece il modo stesso in cui ci poniamo, l’approccio che abbiamo, i presupposti dai quali partiamo. Per dirla il modo molto semplice, non si cura una malattia iniettando una dose maggiore della malattia stessa. Ecco, è proprio a questo punto che l’antropologia può esserci d’aiuto.

Sul piano antropologico, il modello di sviluppo e modernizzazione occidentale è stato accostato da alcuni esperti ad un’ontologia4 precisa, alla quale è possibile contrapporre molte altre realtà. Il binomio dicotomico natura-cultura è una delle principali caratteristiche di questa concezione della realtà, antropocentrica in senso assoluto. Uno dei primi antropologi a mettere in discussione questa visione è il francese Philippe Descola, il quale, influenzato dalla sua esperienza etnografica con la popolazione Shuar dell’Amazzonia ecuadoriana, rompe con la tradizione cartesiana di ordinamento binario della realtà5, rendendosi conto del fatto che essa costituisca un ostacolo enorme alla comprensione di ontologie diverse dalla nostra. Egli tenta quindi di raccogliere una genealogia delle ontologie, classificando la concezione occidentale con il nome di naturalismo e mettendola a confronto con analogismoanimismo e totemismo.6 A questo proposito, a seconda delle proprietà identificative utilizzate e dei risultati empirici riscontrati, “questi princìpi di identificazione definiscono quattro grandi tipi d’ontologia, cioè di sistemi di proprietà degli esi­stenti, i quali servono da punto di ancoraggio a forme contrastive di cosmologie, di modelli del legame sociale e di teorie dell’identità e dell’alte­rità”7. Attenzione, mettere in dubbio il nostro modello di sviluppo non implica automaticamente che esso sia sbagliato: non è questo l’obiettivo della cosiddetta svolta ontologica. Al contrario, ciò che viene criticata è la centralità assoluta che esso ha acquisito, finendo per oscurare o cancellare del tutto l’esistenza di altre ontologie possibili.

I modelli proposti sono vari, ed è importante capire che non si tratta solo di prospettive diverse di vedere la realtà, ma di vere e proprie realtà alternative. In questo senso, il mio scopo non è quello di entrare nei particolari di ogni specifica ontologia proposta da Descola o dai suoi colleghi, ma di aprire uno spazio per discutere e considerare alternative reali al nostro modello di sviluppo. Pensandoci, il solo fatto di accettare e riconoscere l’esistenza di altre ontologie è un ottimo punto di partenza: così facendo, stiamo automaticamente considerando delle analisi sociali puramente strutturaliste, in naturale contraddizione con il modello razionale ed incentrato sullo sviluppo. Come infatti ricordavo in precedenza, esso prevede l’opposizione del concetto di cultura a quello di natura, il che implica una legittimazione del modello rostowiano che vede nelle rivoluzioni industriali e nell’evoluzionismo esasperato dal darwinismo sociale i punti cardine della nostra società.
A questo punto arriviamo a toccare un’altra corda fondamentale del nostro ragionamento. La domanda che ci siamo posti all’inizio è sbagliata a prescindere proprio perché prevede un calcolo razionale di qualcosa che razionale non lo è: essa è emblematica in quanto si tratta della trasposizione di un sistema (che rappresenta la nostra realtà) su un piano prettamente utilitaristico, intrinseco al sistema stesso. Credo quindi che dovremmo considerare l’eredità che la svolta ontologica ci ha lasciato per rivalutare la situazione odierna da una prospettiva storica e antropologica; questo probabilmente non ci porterà a trovare una risposta al quesito, quanto piuttosto a lavorare affinché sia possibile non arrivare a porselo.

Sulla base di quanto detto, una domanda sorge spontanea: “com’è possibile applicare i concetti proposti dalla svolta ontologica a livello empirico?” Si potrebbero fare parecchi esempi, ma credo che sia interessante considerare brevemente il caso dell’Ecuador, primo Paese nel mondo ad includere nella Costituzione (2008) i “Diritti della Natura”. Il cambio paradigmatico in questo caso sta nel modo in cui concepiamo la Natura stessa: passiamo infatti dal trattarla come oggetto da difendere e tutelare al considerarla come vero e proprio soggetto attivo ed, in quanto tale, titolare di diritti tali e quali a quelli degli esseri umani. In questo caso quindi, l’orientamento antropocentrico è stato spostato verso una visione più olistica del sistema, aprendo uno spazio per il riconoscimento di vere e proprie realtà diverse.

L’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, ci spiega come “l’affermazione dell’ontologia arriva esattamente nel momento in cui le fondamenta ontologiche della nostra civiltà – e dell’indiscussa supremazia culturale delle persone che l’hanno fondata – stanno iniziando a sbriciolarsi”8.
La crisi aperta da questa pandemia è profonda, ed uscirne non sarà affatto semplice. Forse, però, potremmo iniziare col cambiare il nostro approccio: invece di esaminare rigorosamente le soluzioni proposte all’interno del nostro sistema, potrebbe essere arrivata l’ora di uscirne, cercando risposte in altre ontologie.

Francesco

Note:

1 Il titolo è ispirato a quello di un articolo pubblicato nel 2015 da Eduardo Viveiros de Castro, intitolato appunto “Who is afraid of the ontological wolf?”

2 L’opera è intitolata “Gli stadi dello sviluppo economico”, pubblicata nel 1960 (e tradotta in italiano nel 1962).

3 Pronunciato nel 1949. Qui il discorso completo: https://www.youtube.com/watch?v=gytbJo_bmxA&t=265s

4 in filosofia, studio dell’essere e delle sue categorie fondamentali, in antropologia il modo in cui un certo gruppo di persone definisce la realtà intorno a sé.

5 Esempi di binomi oppositivi e complementari in questo senso sono: corpo e mente, umanità e “animalità”, necessità e spontaneità, immanenza e trascendenza.

6 La classificazione avviene tramite la combinazione di caratteristiche che Descola definisce “fiscalità” e “interiorità”, in quanto egli ritiene che rappresentino un dualismo più ricorrente e rappresentativo di un livello più generale rispetto a quello natura-cultura: per comprenderli meglio possiamo rifarci ad un passaggio di Oltre Natura e Cultura, riportato da Mancuso: “di fronte a un altro qualunque, umano o non uma­no, posso supporre che possieda degli elementi di fisicalità e di interiorità identici ai miei, sia che la sua interiorità e la sua fisicalità siano distinte dalle mie, sia ancora che abbiamo delle interiorità simi­li e delle fisicalità eterogenee, sia infine che le no­stre interiorità siano differenti e le nostre fisicalità analoghe. Chiamerò “totemismo” la prima com­binazione, “analogismo” la seconda, “animismo” la terza e “naturalismo” l’ultima.” (Descola, 2014a: 141, in Mancuso, 2016,100)

7 Descola, 2014a: 141, in Mancuso, 2016:100.

8 Viveiros de Castro, 2015:11

Per approfondire:

  • Viveiros De Castro, Eduardo. “Who is afraid of the ontological wolf?: Some comments on an ongoing anthropological debate.” The Cambridge Journal of Anthropology 33.1 (2015): 2-17.
  • Descola, Philippe. Beyond nature and culture. University of Chicago Press, 2013.
  • Escobar, Arturo. “Sustainability: Design for the pluriverse.” Development 54.2 (2011): 137-140.
  • Mancuso, Alessandro. “Antropologia,“svolta ontologica”, politica. Descola, Latour, Viveiros de Castro.” (2016): 97-132.