L’arrivo in Europa della delegazione Zapatista è una buona occasione per ripensare i caratteri di quello che storicamente, nell’ambito della sinistra, più o meno radicale o rivoluzionaria, è da sempre indicato come un vero e proprio dovere di solidarietà internazionalista.

I termini della questione sono infatti radicalmente cambiati, almeno a partire da quella decisiva cesura storica verificatasi a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, con la pesante sconfitta di tutte le ipotesi, più o meno antagoniste, di ispirazione marxista, socialista, o libertaria. Fino a quel momento, e segnatamente a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, lo scontro tra due opposte visioni del mondo era stato concepito da tutti i contendenti come il darsi di un preciso schieramento di fronti tra forze precise e ben caratterizzate. Fondamentale era certo, a questo proposito, la logica della “guerra fredda” tra i due blocchi contrapposti. Ma non era solo questo! Infatti, anche chi non vedeva nell’URSS un riferimento politico, considerando l’esperienza sovietica come lontana dagli ideali socialisti o come un regime comunque oppressivo, non si discostava di fatto, da una visione dello scontro politico come caratterizzato da due modelli sociali molto ben delineati, quasi statici nei loro caratteri fondanti: il modello capitalista da un lato  e quello rivoluzionario e socialista dall’altro, ormai giunti nell’imminenza della definitiva resa dei conti di fronte alla storia.

Da questa situazione derivava una precisa concezione delle pratiche di lotta internazionalista, che ponevano sempre come centrale la logica politicista dell’immediato schierare i fronti tra amico e nemico. Ne veniva sovente un puro solidarismo. La dichiarazione formale di un essere “a fianco di…”, in uno spirito quasi sempre di sincera fratellanza, ma che inevitabilmente poneva in secondo piano quelle particolarità di percorsi plurali e diversi, quell’insieme di differenze sociali, locali, nazionali ecc., che costituivano una ricchezza che finiva con l’essere sacrificata sull’altare dei tempi della storia, illusoriamente immaginati come brevi e risolutivi.

Credo che uno dei motivi della sconfitta, o se si vuole della illusione di una vittoria imminente, sia stato proprio l’avere ridotto il capitalismo ad un modello statico, e tutto sommato chiaro e semplice nei suoi fondamenti. È vero che il sistema capitalistico è caratterizzato da una costante che (aristotelicamente) ne definisce l’essenza: il permanere nel farsi della sua storia di una precisa“logica di dominio”. Ma questa viene poi coniugata in modi e in forme sempre diversi. Il capitalismo è un sistema sociale estremamente dinamico. Anzi è l’unico sistema sociale veramente dinamico e fortemente autopoietico che la storia ci abbia consegnato. L’unico capace di comandare il conflitto in divenire, appropriandosi dei suoi caratteri costruttivi,  piuttosto che imporre un ordine statico e immutabile. Ne sono prova le profonde trasformazioni che lo hanno percorso anche solo nell’ultimo secolo: dal fordismo al post-fordismo, all’attuale dominio della finanza globale. Dalla sussunzione del tempo lavoro alla sussunzione del tempo vita. Dal keynesismo al neoliberismo. Di fronte a tanta dinamicità gli “ingessati” modelli alternativi si sono semplicemente sgretolati.

Forse non è un caso che quello che, almeno nelle nostre speranze, si può considerare come un nuovo cominciamento delle pratiche di lotta e di resistenza, venga proprio da tematiche alter-mondialiste e internazionaliste, così come si sono sviluppate a partire dalla manifestazione no global di Seattle, e poi da quella contro il G8 di Genova. Più o meno da quel momento, in cui di fatto cominciava ad essere metabolizzata la precedente sconfitta (anche se non certo superata nei suoi esiti), si sono venuti a delineare, almeno credo, caratteri nuovi nelle prospettive dell’antagonismo sociale, anche se non sempre espliciti e ben delineati.

Quello che voglio significare è che le lotte degli ultimi venti anni, malgrado le grandi e persistenti difficoltà e incertezze, presentano una (tendenziale) costante, che vede uno scivolamento da tematiche accentrate intorno alla questione del potere, e alla esigenza di una qualche “presa del palazzo d’inverno”, verso l’esigenza di porre al centro delle questioni le problematiche della “liberazione”. Questo mi pare di vedere nelle lotte, per l’appunto, di liberazione (dal transfemminismo ai neri, ai popoli oppressi ecc), ma anche nei movimenti che rivendicano un diverso approccio con la natura e nella gestione dei beni comuni, così come nei più tradizionali movimenti per il reddito e il salario. Tutto questo anche con un notevole e specifico contributo da parte di alcune situazioni di lotta e sperimentazione di nuove ipotesi maturate nel terzo mondo. Dal Chiapas Zapatista alle lotte del popolo Curdo che tanto hanno da insegnarci.

Il passaggio, seppure oggi non del tutto compiuto, da un PARADIGMA DEL POTERE ad un PARADIGMA DELLA LIBERAZIONE, impone alcune fondamentali riflessioni, anche nello specifico del tema dell’internazionalismo. Innanzitutto va precisato che la logica della liberazione, almeno in una prima fase, non azzera necessariamente tutte le tematiche legate al potere, ma le rende più flessibili e le lega allo specifico e al contingente. Quel che però è centrale è che cambia sostanzialmente la prospettiva dell’agire politico. Mentre la via del potere è univoca e obbligata(almeno nella sua dimensione strategica), la via della liberazione è fatta di innumerevoli percorsi non precostituiti, da scoprire, e spesso da inventare. Una avventura in cui il soggetto “rivoluzionario”, nel suo complesso, si autodetermina, determinando il proprio agire, fare e costruire. Un cammino incerto e difficile, perché comunque le scelte di autodeterminazione sono sempre condizionate dalla molteplicità degli attori e dei percorsi, ma soprattutto dalla presenza e dalle scelte del “nemico” capitalista.

Occorre una grande duttilità, che configura una nuova etica e una nuova “postura” rivoluzionaria. Bisogna guardare al mondo in modo duplice. Per un verso la nostra attenzione deve essere concentrata sul presente e sull’immediato. E’ necessario navigare a vista, capire le situazioni e cogliere le opportunità, con grande realismo e pragmatismo. Per altro verso bisogna sapere guardare lontano liberando l’immaginazione e la creatività. Sapere praticare l’utopia, che nasce abbinando concretezza e desiderio, ma restando sempre nel conflitto senza ricadere nell’errore di pensare modelli statici e precostituiti, e sostanzialmente irrealizzabili.

Stessa militanza, come logica, non più di mero solidarismo, ma di costante “sconfinamento da sé”, per la definizione e continua ri-definizione della propria identità, attraverso la continua attenzione per ogni esperienza di lotta e resistenza, con un ininterrotto impegno verso la conoscenza, lo studio, lo scambio e la condivisione, anche aperta alla differenza di esperienze e di vedute. Un modo ancora in fieri, se non  del tutto ipotetico, di ricomporsi pur nella pluralità come “parte” senza essere “partito”, per indicare il quale mi piace usare la bella metafora della “alleanza dei corpi” (Judith Butler). Certo una alleanza dei corpi che, per sua stessa natura, necessita di uno spazio pubblico e comune per potersi realizzare. Nel nostro caso uno spazio globale. Una piazza-mondo che per darsi deve superare e domare profonde distanze storiche e geografiche, ma che intanto deve cominciare a prefigurarsi nella pratica costante dello “interagire delle menti” che di ogni alleanza dei corpi e precondizione ed elemento costitutivo e ineliminabile.

La strada e ancora lunga e difficile.