Come previsto, il consorzio d’imprese composto dall’italiana ENI e dalla russa Novatek ha iniziato giovedì scorso, 25 marzo, la perforazione di pozzi esplorativi a largo del Montenegro. Il primo pozzo si trova a 14 miglia nautiche dalle coste montenegrine e le operazioni avranno, secondo i programmi, una durata di circa sei mesi.

Ultimo atto di un percorso lungo cinque anni

È l’ultimo atto di un percorso iniziato nel 2016 con la firma del contratto di concessione trentennale tra il governo montenegrino e il duopolio italo-russo – entrambi al 50% – e proseguito negli anni successivi con la realizzazione di diverse campagne geofisiche e geologiche su un’area di oltre 1200 chilometri quadrati, tutta in acque territoriali montenegrine. Un ultimo atto indispensabile per acquisire le restanti informazioni necessarie a definire le caratteristiche di un giacimento petrolifero che, sulla carta, sembra molto promettente e che, secondo le previsioni, potrebbe dare al Montenegro la piena indipendenza energetica per ciò che attiene la fornitura di petrolio e gas.

Un fattore economicamente rilevantissimo, considerando che attualmente il Montenegro non produce neanche un barile di petrolio e che dipende, per intero, dalle importazioni (l’energia elettrica è prodotta da centrali idroelettriche, con nuovi investimenti di 2 miliardi di Euro previsti per l’immediato futuro, e da quella termica di Pljevlja). Quanto basta per far intravedere a Mladen Bojanić, ministro degli Investimenti Capitali, tutti i vantaggi finanziari sottesi al successo dell’operazione, inclusa la possibilità di emanciparsi dal solo settore turistico come elemento di traino fondamentale dell’intera economia del paese (il turismo rappresenta il 30% circa del PIL nazionale e dà lavoro a 75 mila persone).

L’opposizione delle associazioni ecologiste

Sono di diverso avviso le organizzazioni non governative e le associazioni ambientaliste che temono l’impatto sull’ecosistema marino, anteponendo alle tesi del governo un punto di vista basato non solo su argomentazioni genericamente ecologiste, ma anche di opportunità economica. In altre parole, il gioco non varrebbe la candela in quanto la realizzazione di piattaforme petrolifere visibili dalle spiagge comporterebbe, secondo questa tesi, il crollo irreversibile del turismo con un disvalore di gran lunga superiore a quello degli ipotetici vantaggi – sono oltre due milioni i turisti che ogni anno entrano nel paese, una cifra enorme considerando che il Montenegro conta poco più di 600 mila abitanti.

Una posizione, quella delle sigle verdi, non nuova: prima ancora della stipula della convenzione e già all’indomani dell’indizione del bando di gara per lo sfruttamento del giacimento, nel marzo del 2015, gli attivisti si erano mobilitati sotto lo striscione “Niente trivelle in Adriatico” definendo il progetto intollerabile e ad alto rischio e protestando per il fatto che una decisione di tale importanza strategica fosse stata presa dal governo senza un coinvolgimento popolare. Una protesta che aveva avuto un respiro regionale nell’ambito della campagna “SOS per l’Adriatico”, trovando sponda anche in Croazia, Slovenia e in Italia (dove nell’aprile del 2016 si sarebbe anche tenuto un referendum abrogativo delle concessioni senza, però, il raggiungimento del quorum richiesto).

Le perplessità e la posizione del governo

A questo giro le istanze delle associazioni ecologiste fanno leva, anche, sui riscontri emersi dal rapporto preliminare stilato dalla Državna revizorska institucija (DRI), organo statale indipendente di controllo delle spese di bilancio. Il rapporto evidenzierebbe le lacune strutturali del Montenegro, tali da impedire il tempestivo ed efficace intervento in caso di incidenti che implicassero la fuoriuscita di petrolio o il rilascio di altre sostanze pericolose una volta che le piattaforme saranno pienamente operative.

Ma non è tutto: la relazione della DRI sottolineerebbe che sarebbero state ignorate le raccomandazioni e le misure per la protezione ambientale originariamente previste dal programma di ricerca. Si tratterebbe, dunque, di una scelta sbagliata e oltretutto anacronistica e in controtendenza con la politica portata avanti dalla vicina Croazia dove da sei anni vige il divieto di qualsiasi perforazione esplorativa e dove sono stati risolti vari contratti di concessione, abbandonando definitivamente ogni ipotesi di esplorazione per diversi giacimenti potenziali già individuati.

Non sembra pensarla così Marko Adžić, responsabile di un’altra entità governativa, l’Autorità sugli Idrocarburi, secondo il quale l’impatto ambientale del progetto sarebbe trascurabile poiché l’inquinamento provocato dalle piattaforme sarebbe inferiore a quello delle navi. La partita sembra chiusa, dunque, e allo stato attuale sembrano davvero poche le possibilità che la lotta verde possa avere l’esito da loro auspicato: intanto le trivelle sono all’opera e tra sei mesi sarà più chiaro quali siano le effettive potenzialità del fondale montenegrino e sarà dunque possibile avere un quadro più consapevole dei costi e dei benefici di questa scelta. E, magari, cambiare rotta.

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