Dal tragico giorno dell’uccisione dell’ambasciatore Attanasio, del carabiniere Jacovacci e dell’autista Milambo, la Repubblica Democratica del Congo è tornata al centro dei radar dei principali media italiani, da cui era praticamente scomparsa da tempo immemore.

Si è parlato a buon diritto dei drammatici livelli d’insicurezza nel paese e della sostanziale incapacità delle forze regolari di garantire una benché minima difesa a favore della popolazione civile, soprattutto nell’est; di una guerra civile mai conclusa e di un numero di sfollati interni che a livello mondiale è secondo solo alla Siria; degli indici economici tra i più bassi al mondo e di una incapacità strutturale di aumentare i livelli di benessere attraverso l’utilizzo delle proprie risorse.

Addirittura, come spesso capita quando internet si fa finestra aperta attraverso la quale chiunque può commentare criticamente fatti accaduti ovunque, è divenuta in alcuni frangenti concreta e condivisa l’opinione secondo la quale la responsabilità dei fatti accaduti lunedì fosse della popolazione congolese in toto, della sua arretratezza, della sua violenza bruta profondamente radicata; e che fosse diritto e dovere delle istituzioni italiane tagliare di netto qualsiasi relazione con il paese, sia diplomatica che di cooperazione.

Tanto gli approfondimenti più razionali quanto la vox populi issata a ragione sociale, mostrano che al centro del dibattito sulla regione manca completamente un approfondimento decisivo, utile per schiarirne la complessità: qual è ruolo degli stati più ricchi e delle aziende che vi appartengono, nel passato e nel presente del paese?

Guardi il Congo e vedi una terra benedetta, ricca di minerali e fertile quanto basta da potersi definire l’”Eden del centro-Africa”, che allo stesso tempo vive in uno stato di perenne imbarbarimento, e viene da chiedersi; come si è arrivati a tanto? Cosa si nasconde dietro alla dannazione e benedizione di questi luoghi?

Ovviamente non può rispondersi a queste domande indicando un’unica ragione. La complessità socio-economica della nazione africana affonda le sue radici nel tempo immediatamente successivo alla colonizzazione belga e trova ragion d’essere in tante concause che ne hanno segnato la storia fino a dipingere un drammatico presente. Corruzione, tribalismo, epidemie, malnutrizione e livelli di analfabetismo pantagruelici si mescolano ad una identità culturale completamente smarrita.

Di certo però potrebbe aiutarci a trovare un sottile fil rouge il guardarci allo specchio e cercarvi il peso, non solo storico, ma attuale, degli interessi economici di un Occidente costantemente trapiantato nel paese.

Ad esempio, una delle principali compagnie minerarie del paese, nonché la proprietaria delle due più grandi miniere di cobalto del continente africano, si chiama Glencore International plc. Colosso dell’estrazione a livello mondiale, con i suoi 21 miliardi di euro di fatturato annuo è la principale compagnia al mondo attiva nel commercio di materie prime. La sua sede legale si trova in un piccolo villaggio bucolico del centro della Svizzera di nome Baar e il veterano CEO Ivan Glasenberg, da vent’anni al timone della compagnia, ha più volte sottolineato come la società “si sforzi ogni giorno per garantire una crescita sociale ed economica delle comunità dove opera, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo”.

La realtà dei fatti testimonia una situazione ben differente.

Il compianto scenografo e ballerino katanghese Dorine Mokha, nel 2020, poco prima della sua misteriosa morte, dava alle scene in collaborazione con l’artista svizzero Elia Rediger l’opera “L’Ercole di Lubumbashi”, un documentario musicato in cui denunciava apertamente le violenze e i soprusi perpetrati dalla Glencore nel paese.

Per citarne alcuni: nel 2019 in una miniera dell’Haut Katanga di proprietà della società ci fu un crollo strutturale dovuto alla mancanza di corretti strumenti di sicurezza. Ufficialmente persero la vita 41 minatori; secondo la popolazione locale i morti furono tra gli 80 ed i 300.

Nello stesso anno, a febbraio, un camion della società carico di acido solforico tentò un sorpasso azzardato di un minibus e dopo averlo colpito finì fuori strada. Nell’incidente persero la vita 21 persone e 7 restarono gravemente ferite; i campi del vicino villaggio di Tenke furono irrimediabilmente inquinati.

Si potrebbe continuare così per pagine intere.

Un buon riassunto della posizione della compagnia in tema di responsabilità sociale è rappresentato da quanto successo nel 2018, quando il governo congolese nell’ambito della riforma del Codice Minerario aveva preteso dalla società – unicum in una relazione commerciale storicamente caratterizzata da fiacco servilismo – un aumento sulle tasse di esportazione dei minerali strategicamente più importanti, ovvero coltan e cobalto, dal 2% al 10%. Glencore in tutta risposta sospese le attività della miniera di Mutanda, la più grande fonte di approvvigionamento di coltan al mondo, lasciando a casa tutti i lavoratori. Il governo congolese allora fece un passo indietro e nell’anno successivo il colosso svizzero chiuse un accordo quadriennale con Tesla e Samsung per la fornitura del prezioso minerale, indispensabile nella fabbricazione di batterie e microcircuiti.

Ecco, il caso della società Glencore rappresenta solo la punta di un iceberg fatto di interessi e violenza che sta lentamente trangugiando il midollo del paese dall’interno.

Fintanto che continueremo allora a giudicare il Congo dall’esterno senza avere il coraggio di guardarci allo specchio e trovarvi una buona dose di responsabilità, non saremo pronti ad accettare un cambiamento di posizioni tanto necessario quanto inevitabile.

Prima costruiremo questa nuova consapevolezza e prima potremo creare strade di cooperazione che siano davvero sostenibili per entrambe le parti.

La tragedia di lunedì ci ricorda quale sia il prezzo di una instabilità premeditata.