Maurizio Veglio, avvocato dell’ASGI, autore del libro “La Malapena” ci parla del CPR dandoci ulteriori chiavi di comprensione di questo sistema detentivo di cui troppo poco si parla.

Il libro di Maurizio Veglio apre un doloroso squarcio su una delle realtà più eticamente sensibili, contraddittorie, controverse e “nascoste” del rapporto che lo Stato italiano ha con l’immigrazione.

Il suo libro apre uno squarcio nella coltre di silenzio che circonda il CPR, tra l’altro gli organi d’informazione, sia la carta stampata, sia le televisioni, non si occupano di questo argomento: cose pensa al riguardo?

Penso che l’assenza del tema del CPR dal discorso pubblico sia coerente con un impianto generale di distrazione, di disattenzione. Eppure è un argomento che tocca al tempo stesso la carne e la filosofia dei diritti fondamentali: la privazione della libertà personale è l’ultimo passo nella perdita di dignità dell’essere umano. Nell’indifferenza generale si è legittimata una forma di detenzione (in termine burocratico viene usato il termine “trattenimento” n.d.r.) che pochi anni fa arrivava fino a 18 mesi, un assoluto abominio.

I cittadini comunitari sprovvisti dei requisiti di soggiorno possono essere privati della libertà personale per 96 ore (4 giorni) al massimo. Sono poi previste misure alternative al trattenimento. Non crede che sia una notevole discriminazione nei confronti dei cittadini extracomunitari che con la vigente normativa possono essere trattenuti fino a 90 giorni prorogabili, a seconda degli accordi internazionali di rimpatrio, di ulteriori 30?

Il CPR racchiude una somma di discriminazioni, a partire da quella istituzionale che attribuisce la giurisdizione sulla libertà individuale a magistrati onorari, cioè i Giudici di Pace, e non a magistrati togati (il Tribunale). In merito alla sua domanda, la disuguaglianza è evidente: per quale motivo un cittadino romeno non può trascorrere più di 4 giorni nel CPR e un cittadino tunisino può restare 4 mesi? Alla base di queste norme risiedono ragioni storiche, politiche, culturali, peraltro controvertibili e attaccabili. D’altronde la legge esprime il sentimento di una collettività come interpretato dal suo legislatore.

Nel suo libro lei cita i “300 secondi” (5 minuti n.d.r.) che è statisticamente il tempo di durata della maggior parte delle udienze di convalida e proroga dei trattenimenti in CPR. Inoltre secondo le statistiche la grande maggioranza delle decisioni a livello nazionale accoglie la richiesta di trattenimento della Questura. Parliamo quindi di un meccanismo molto ben oliato che però dispone della libertà personale di cittadini stranieri.

Ho accennato prima all’aspetto discriminatorio che riguarda la scelta di affidare alla magistratura onoraria e non a quella togata la decisione sulla libertà personale di coloro che finiscono nel CPR. Questo è l’aspetto formale, poi c’è il problema sostanziale, legato qualità della giurisdizione.

I dati riproducono un quadro assolutamente fallimentare, sia per le carenze della giurisprudenza dei Giudici di pace, sia per la corresponsabilità degli avvocati. Spesso le udienze di svolgono alla presenza di un avvocato d’ufficio, non scelto dalla persona che non è in grado di indicarne alcuno: specialmente in questi casi è abituale che il difensore non sollevi alcuna contestazione né solleciti alcuna forma di istruttoria, rimettendosi semplicemente alla decisione del Giudice. Decisione che viene adottata mediamente in 300 secondi, dunque in termini del tutto formali, notarili.

Il campione statistico analizzato da Lexilium, l’osservatorio sulla giurisprudenza dei Giudici di pace in tema di immigrazione, è di circa 950 udienze di convalida e di proroga, oltre il 50% di queste non supera i 5 minuti di durata. Parlare di carenza d’istruttoria è un eufemismo.

Arriva da più parti la preoccupazione sulle garanzie dei diritti in particolare dei cittadini Tunisini: moltissimi verrebbero rimpatriati prima che possano fare la domanda di asilo, il che presupporrebbe una violazione dei diritti: in Italia esiste il diritto di accesso alla domanda di protezione internazionale.

La situazione che riguarda attualmente i cittadini tunisini costituisce l’apice di questa situazione di sofferenza normativa, istituzionale e umana.

Ci è stato spesso riferito che i cittadini tunisini non sono posti nelle condizioni di richiedere la protezione internazionale al momento dello sbarco, le cause riferite sono molteplici: omessa informazione, disinteresse, ostacoli di ordine pratico. Si tratta di segnalazioni che sono iniziate almeno 5/6 anni fa.

La situazione si è aggravata in seguito all’accordo intervenuto l’estate scorsa tra Italia e Tunisia che ha determinato la predisposizione di 2 voli charter alla settimana, capaci di rimpatriare 40 persone ciascuno. Il meccanismo di rimpatrio con la Tunisia è stato perfezionato al punto che in 18 anni non ricordo di avere visto procedure di espulsione così rapide.

Queste prassi esasperano una serie di problemi, in primo luogo l’accesso alla procedura di protezione internazionale. La proposizione della domanda di asilo solo in seguito al trattenimento nel CPR, dopo il colloquio con mediatori e avvocati, è una sconfitta del sistema, che non è stato in grado di – o non ha voluto – accogliere in prima istanza la richiesta di ascolto della persona.

Inoltre la velocità dei rimpatri pregiudica anche l’esercizio dei diritti di difesa: è molto difficile garantire un’assistenza legale decorosa in pochissimi giorni, con le note difficoltà anche solo di comunicazione con le persone trattenute.

Nel 2018 il Garante Nazionale per le persone private della libertà ha fatto “un’ispezione” all’interno del CPR di Torino, circostanza che ha determinato una relazione nella quale ha contestato tutta una serie di violazioni del diritto delle persone private della libertà. Nel 2019 la situazione è stata molto tesa: rivolte, incendi, la morte di Faisal Hossain nel famigerato ospedaletto. Nel 2020 la situazione è sembrata in parte migliorare, ma ultimamente la preoccupazione di un ritorno ad una gestione fortemente lesiva dei diritti e della dignità dei trattenuti si sta sollevando da più parti.

Credo che il problema stia soprattutto nella progressiva riduzione delle risorse e dei servizi a disposizione della pubblica amministrazione e degli enti gestori per garantire soglie minime di decenza istituzionale. Basta leggere il capitolato di appalto ministeriale del 2018 per capire la gravità di questa tendenza.

Nel corso dell’ultimo anno abbiamo rilevato una netta degradazione del diritto di accesso alla cura e alla salute delle persone. Il capitolato di appalto prevede che un CPR in grado di trattenere dalle 150 alle 300 persone abbia una presenza di personale sanitario assolutamente insufficiente: 1 infermiere per 24 ore al giorno e 1 medico per 6 ore al giorno. Ritengo impossibile garantire adeguati standard di salute e dignità in queste condizioni.

Oltretutto il CPR è notoriamente luogo di afflizione e difficoltà per i trattenuti, come attestato dall’impressionante diffusione degli atti di autolesionismo.

Nel gennaio 2020 un dirigente della questura di Torino ha dichiarato a La Stampa che il 90% circa delle persone presenti all’interno del CPR di Torino erano persone con precedenti per reati gravi. Un capitolo nel suo libro s’intitola “Per chi crede alla Questura”.

Il CPR è un luogo in cui il concetto di asimmetria informativa raggiunge i massimi livelli. A differenza del carcere, pur essendone una riproduzione in misura minima, è completamente avvolto nel mistero: non produce numeri, non produce conoscenza (dei fenomeni ad esso legati n.d.r.), informazioni; al contrario impone una cappa di silenzio, che inevitabilmente stimola sospetti e dubbi. Non solo circolano dati frammentari, parziali e contraddittori, ma nessuno – nemmeno a livello istituzionale – sa, ad esempio, quanto costi il sistema del CPR.

E’ per questo che molte delle affermazioni rilasciate da rappresentanti della pubblica amministrazione sul CPR richiedono un atto di fede, in assenza di una letteratura statistica che consenta di testarne l’attendibilità. La dichiarazione a cui faceva riferimento sulla presenza di stranieri con precedenti penali per reati molto gravi non è fondata su alcuna base statistica pubblicamente disponibile.

All’interno del CPR c’è un paradigma completamente rovesciato: la buona salute è un deterrente alla libertà. Dal CPR è possibile essere rilasciati per motivi di salute. Questo pone l’autolesionismo come concreta misura contro la privazione della libertà personale.

Questo è forse il più terribile paradosso. Dal CPR si può uscire per ragioni di natura giuridica o di natura sanitaria: i dati – raccolti da Lexilium in assenza di quelli istituzionali – dicono che, ad esempio dal CPR di Torino, le dimissioni per ragioni giuridiche non arrivano al 5% dei casi. Rimane l’uscita per ragioni sanitarie.

Penso sia innegabile che molti degli episodi e dei gesti anti-conservativi sono legati a doppio filo alla mancanza di alternative: la disperazione può rendere desiderabile il proprio male fisico se questo comporta una possibilità di guadagnare la libertà.

Abbiamo notizie che a trattenuti rilasciati dal CPR di Torino per motivi di salute (anche per fatti occorsi durante il trattenimento) non sia stata consegnata alcuna documentazione sanitaria al seguito, neanche quella prevista dall’Art. 3 regolamento CIE del 20/10/2014, ovvero la scheda medica, che comunque spesso risulterebbe parziale e poco esaustiva. E comunque non vengono rilasciate le lettere di dimissioni delle strutture ASL nelle quali i trattenuti sono stati curati al di fuori del CPR durante il trattenimento.

Registriamo un’enorme resistenza all’esercizio del diritto di accedere alla copia della propria cartella sanitaria. Ritengo sbalorditivo che il soggetto titolare di un fascicolo sanitario, il proprietario del corpo “trattenuto” dallo Stato e oggetto di un trattamento medico, non possa avere piena conoscenza e copia delle informazioni che lo riguardano. Insieme alla qualità dei luoghi, alle condizioni di vita, alle limitazioni del diritto alla comunicazione con l’esterno, la precarietà della salute è una tessera del mosaico più ampio di degradazione e sofferenza che accompagna la vita delle persone che “scompaiono” dentro i CPR.