2 febbraio 2021. El espectador

Il 28 gennaio i detrattori della JEP (Giurisdizione Speciale per la Pace, n.d.t.) sono rimasti senza argomenti. Il ritornello che ha dato loro il trionfo nel plebiscito e nelle elezioni è crollato come crollano tutte le bugie. Non esiste calunnia che resista per quattro anni, né prova che non sappia demolirla.

Con un lavoro monumentale la JEP ha confrontato le versioni di ex guerriglieri, vittime, cronisti, procuratori, fonti interne ed esterne, sei grandi database di un lungo e degradato conflitto. Ciascuno ha detto la sua verità. Ciascuno ha lasciato tracce della sua memoria, mischiate alla marcia funebre dei lutti, i sentimenti e le umiliazioni causate e subite; paure, movimenti e sparizioni; dopo una guerra di oltre 50 anni c’è tutto da raccontare, da ricomporre e da riconciliare. In un Paese con otto milioni di vittime, quasi tutti possono raccontare una storia, e nessuno possiede una patente da vincitore.

A partire dall’Accordo di Pace abbiamo l’opportunità di rievocare il passato non per continuare a odiarci, non per rafforzare il vittimismo delle vittime o la demonizzazione dei colpevoli, ma per decidere se vogliamo sprecare la vita che ci resta cercando vendetta, o cercando di ottenere qualcosa che sia simile al perdono.

Da entrambi i lati della barricata esiste il potenziale per una riconciliazione e per dimostrare a questo Paese che è sopravvissuto a tutto – perfino a se stesso – che la verità ferisce ma guarisce anche. Cicatrizzare serve di più che approfondire le ferite, e seppure nulla cancellerà il passato, nessuno ci obbliga ad annegare legati ad esso, come una pietra nelle profondità del male. Scusate, del mare.

L’Accordo permetterà ai morti di riposare in pace e, a noi, di ricostruire un’identità non in funzione di chi erano i nostri nemici, ma su quanto siamo disposti a ripercorrere insieme a ritroso i gradini della violenza.

Presa di ostaggi e privazione della libertà sono i crimini più importanti che la JEP può attribuire. È molto di più di una semplice accusa di sequestro; è il più grave crimine contemplato nel diritto penale internazionale; sono crimini di guerra e lesa umanità. Allora, critici, riconoscetelo: non esiste un’alleanza tra impunità e giustizia di transizione. Non si cerca di eludere o evitare la verità. Il contrario. Però abbiamo bisogno che la società sia disposta a riconoscerla questa verità raccontata da tutti. Non otterremo nulla di buono se ogni volta che un ex guerrigliero chiede perdono viene definito un cinico. Cinica è la società che sulla porta della chiesa fa il segno della croce e poi, sinuosa o arrogante, boicotta la pace; cinici sono coloro che decidono sui pavimenti di marmo, il futuro delle trincee dove si uccidono i contadini; cinica è la stratificazione di tutto, anche della morte.

In trent’anni la giustizia ordinaria non aveva fatto tanti progressi come la JEP in due (tempo reale). Inoltre, riguardo al macro caso 001 che vede imputati otto ex comandanti della Segreteria delle FARC, sono state emesse oltre trentasettemila sentenze. Né qui né a Cafarnao questa è impunità.

Gli ex comandanti hanno mantenuto la parola data per quattro anni e hanno rischiato la vita, per difendere la pace. Ora hanno trenta giorni per riconoscere pienamente le loro responsabilità, per ammettere la verità completa, coerente e verificabile. Propongo di accompagnarli perché nulla sarà facile in questo giusto e indispensabile passaggio. Una volta fatto, la JEP fisserà l’udienza e il Tribunale della Pace imporrà la pena di natura riparatoria, comprese restrizioni della libertà.

Questo processo esemplare per il mondo e redentivo per la Colombia esige grandezza e umanità, e la comprensione del fatto che le società non si ricompongono da sole, né si può costruire la pace con i monologhi.

Traduzione dallo spagnolo: Manuela Donati, revisione: Silvia Nocera