Negli anni Settanta l’Arabia Saudita ha affrontato grandi riforme, nonostante la resistenza degli ambientii religiosi conservatori, come l’apertura dell’istruzione alle ragazze e l’introduzione della televisione. Ma l’assassinio di re Faisal nel 1975 ha rallentato questo percorso costruito su una delicata alleanza tra l’ala religiosa, rappresentata dalla famiglia al-Sheikh, che regola lo spazio sociale e il potere politico rappresentato dalla famiglia al Saud, che fondò l’attuale regno saudita nel 1932. Dalla sua nomina a principe, nel giugno del 2017, Mohammed bin Salman ha più volte dichiarato di voler rendere il suo Paese “moderato e aperto” e ha cercato di allentare le pressioni degli ambienti religiosi più conservatori sulla società e soprattutto sulle donne, cercando di archiviare una volta per tutte il wahhabismo e le sue pesanti restrizioni di genere legate alla tutela maschile. “Vogliamo vivere una vita normale. Una vita in cui la nostra religione si traduce nella tolleranza” ha più volte detto bin Salman, accompagnando quelle riforme che negli ultimi tre anni hanno permesso alle donne di guidare, di spostarsi senza il permesso di un tutore e di assistere anche agli eventi sportivi. A dispetto di alcuni progressi e dei molti annunci, nel regno saudita rimangono però ancora dure limitazioni alle libertà femminili e alcune “conquiste” di genere sembrano essere più proclami che reali trasformazioni sociali.

È questa l’accusa lanciata il 22 ottobre scorso da 19 organizzazioni per i diritti umani, che hanno avviato una campagna per il boicottaggio di un importante torneo di golf femminile organizzato a nord di Jeddah il marzo scorso e poi rimandato a questo mese a causa del Covid-19. In una lettera aperta gli attivisti hanno attaccato i vertici di Riyadh, accusandoli di “usare le competizioni sportive per ripulirsi l’immagine e fornire al mondo una nuova immagine del loro rapporto con il mondo femminile”. Movimenti come MENA Rights Group e il saudita ALQST hanno invitato gli organizzatori, i partecipanti e gli sponsor della Saudi Ladies International di golf a bloccare l’evento e denunciare la violazione dei diritti umani nel regno wahhabita: “Gli spettatori locali e internazionali di 55 nazioni del mondo – si legge nella lettera degli attivisti – ammireranno le giocatrici competere per un ricco bottino” di 1,5 milioni di dollari.

Tutto questo mentre le donne che si battono “a difesa dei diritti umani nel regno languiscono in prigione, senza nemmeno beneficiare del diritto alla difesa”. Pur sapendo che questo torneo rappresenta una pietra miliare per lo sport femminile saudita, “siamo preoccupati che l’Arabia Saudita usi gli eventi sportivi come arma di pubbliche relazioni per ripulire i dati spaventosi in tema di diritti umani”, inclusa, aggiungono, “la discriminazione delle donne o la repressione di quanti le difendono”.

Fra gli esempi ricordati vi sono le donne finite in carcere per rivendicare il diritto alla guida, e alcuni arresti eclatanti come quelli di Loujain al-Hathloul, Samar Badawi, Nassima al-Sadah, Nouf Abdulaziz e Mayaa al-Zahrani. All’inizio di quest’anno le autorità saudite hanno fermato e trattenuto per alcuni giorni anche Asayel Slay, una musicista e rapper di origine eritree, rea di aver celebrato all’interno di un video le donne della Mecca, la città santa dell’islam, definendole “belle e potenti”. Nel video musicale intitolato “Le ragazze della Mecca”, l’artista con indosso il tradizionale velo ha esaltato il coraggio delle donne che vivono nella città santa: “Il nostro rispetto per le altre ragazze, ma le ragazze della Mecca sono zucchero filato” canta l’artista in un caffè della città con alle spalle ragazzi e ragazze intenti a ballare. Un affronto per il governatore locale, il principe Khalid bin Faisal che ha “ordinato l’arresto” di tutte le persone responsabili del brano che “offende i costumi e le tradizioni” e “contraddice l’identità e le tradizioni”.  Nel brano, che era stato rimosso dal canale YouTube dell’artista (ma ora risulta nuovamente on-line), la Slay canta solo l’orgoglio di appartenere a una città che chiama semplicemente “casa”. Eppure c’è ancora qualcuno a cui è sembrato troppo.  

Nonostante le riforme introdotte negli ultimi anni con il programma “Vision 2030” abbiano toccato la sfera sociale e i diritti di molte donne, gli arresti, la repressione delle voci critiche, la vicenda Khashoggi e la scoperta di tribunali segreti per dissidenti gettano un’ombra su tutto questo presunto cambiamento. 

Da una inchiesta pubblicata quest’anno da Amnesty International, che ha analizzato i casi di 95 persone sottoposte al giudizio del Tribunale Criminale Speciale (Scc) di Riyadh, è emerso che l’Arabia Saudita utilizza un tribunale speciale segreto, allestito per i casi di terrorismo, per perseguitare in modo sistematico anche gli attivisti pro diritti umani e altre voci critiche della monarchia wahhabita. Per Amnesty la corte è stata utilizzata in modo “sistematico” utilizzando impropriamente le leggi anti-terrorismo (ad ampio spettro e con grandi margini di applicazione) e le norme contro il crimine informatico per perpetrare processi ingiusti e comminare condanne senza alcuna base giuridica e fattuale.  Nato nel 2008 per i casi di affiliazione al terrorismo internazionale, in particolare alla rete di al-Qaeda, secondo quanto è emerso da documenti, dichiarazioni governative, oltre a testimonianze di attivisti e avvocati, il Scc si è trasformato in una “parodia della giustizia” utile solo a colpire la libertà di pensiero e l’attività politica pacifica. 

Una delle note più drammatiche di questa deriva è l’uso della tortura per estorcere confessioni che ad oggi hanno portato almeno 20 persone alla condanna a morte, di queste, già 17 sono state giustiziate. “La presunzione di innocenza – ha spiegato l’avvocato Taha al-Hajji, difensore di diversi imputati alla Scc – non è parte del sistema giudiziario dell’Arabia Saudita”. Un’accusa durissima, che stride con l’immagine che il Paese sta cercando di mostrare al mondo esterno in questi ultimi anni anche attraverso i diritti delle donne e lo sport. Anche per questo secondo Ines Osman, direttore e co-fondatore di MENA, il caso del Saudi Ladies International è emblematico: “sport ed eventi non rappresentano un progresso se non sono accompagnati da riforme significative nella sfera dei diritti”, anzi rappresentano “un mezzo per ripulirsi la coscienza. È vergognoso che non si vedano sempre più atleti di alto profilo rifiutarsi di competere in Arabia Saudita”.

 

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