Alla vigilia del ventesimo anniversario dei fatti del G8 di Genova del 2001, molti dei responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse in quell’occasione sono sfuggiti alla giustizia, restando di fatto impuniti anche per l’impossibilità di identificare gli esecutori materiali da parte dell’autorità giudiziaria.

Oggi però “i passi avanti” e le lotte che si sono fatte in questi anni hanno perso il loro significato di fronte alla scelta di promuovere i funzionari di polizia condannati per i fatti di Genova del 2001. Le decisioni sono state prese il 28 ottobre dalla Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e dal capo della Polizia Franco Gabrielli, colui che nel 2017 si riempiva di retorica nel giorno dell’anniversario dei fatti di Genova con frasi piene di sconforto: “Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso”. “Non dobbiamo più continuare a camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro”. “Perché se Genova, ancora oggi, è motivo di dolore e diffidenza, allora vuol dire che in questi 16 anni la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori”.

Le promozioni alla carica di vicequestore hanno riguardato Pietro Troiani e Salvatore Gava, coinvolti nelle violazioni dei diritti umani durante i fatti di Genova. I funzionari furono condannati in via definitiva a tre anni e otto mesi, più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici: Troiani per aver introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz, Gava per averne falsamente attestato il rinvenimento, affinché tale scenario potesse costituire una giustificazione per la sanguinosa irruzione nell’edificio e una ricostruzione da fornire ai mezzi d’informazione.

Non è la prima volta che succede. Sebbene molti di quei poliziotti siano già in età pensionabile, altri erano già stati reintegrati in servizio qualche anno fa, come l’ex capo dello Sco Gilberto Caldarozzi, l’ex dirigente della Digos genovese Spartaco Mortola e Massimo Nucera, il poliziotto che raccontò mentendo di aver ricevuto una coltellata. Nel 2017 Pietro Troiani venne reintegrato come funzionario di polizia. A sedici imputati furono inflitte pene tra i 2 e i 14 anni, ma la gran parte di loro le scontò appena da 3 anni e 8 mesi. Nessuno dei colpevoli andò mai in carcere. Vennero colpiti anche alcuni tra i massimi dirigenti di allora come Francesco Gratteri e Giovanni Luperi, che per poco tempo scontarono i domiciliari. Dei 16 condannati la metà ha potuto andare in pensione, mentre gli altri sono rientrati in servizio. I responsabili della “macelleria messicana”, come la definì il loro vicequestore Massimiliano Fournier, che dovevano rispondere di lesioni gravi, non hanno mai lasciato la polizia, come tutti gli agenti picchiatori che alla Diaz non vennero mai identificati. E per finire, i principali condannati come Franco Gratteri e Giovanni Luperi raggiunsero i vertici della polizia quando il processo nei loro confronti era ancora in corso.

Queste promozioni suonano come un’offesa alle centinaia di persone che vennero arrestate, detenute arbitrariamente e torturate in quella pagina nera della storia italiana che è stata riconosciuta da Amnesty International come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.

La Ministra Lamorgese dovrebbe guardare attentamente la foto che riprende un poliziotto che copre il corpo di Carlo Giuliani, ucciso dalla polizia durante gli scontri. Forse solo dopo aver contemplato questa immagine potrà rendersi conto della portata della sua scelta. Il fatto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e vengano promossi a ulteriori incarichi sottolinea come le istituzioni italiane siano fortemente irrispettose dello Stato di diritto. Se è vero che non dobbiamo più continuare a camminare in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro, almeno dateci il motivo per non farlo.