Non so se in queste righe riuscirò ad evitare la retorica e neppure scommetterei sulla mia originalità, mi piacerebbe piuttosto esprimere quale significato ha avuto Maradona per me.

Di Maradona calciatore, come tifoso juventino ricordo 5 anni di schiaffoni ricevuti: in campionato, in Coppa Italia, in Coppa Uefa, dal 1986 al 1990 non ne vincemmo una. Gol “impossibili” su punizione, da fuori area, dentro l’area, assist, tunnel, per un lustro intero il Napoli umiliò e surclassò la Juve.

In quegli anni il Napoli vinse due scudetti ed una coppa Uefa, non successe mai più.

Gliene urlavamo di tutti i colori (è nato in Argentina, è stato a Barcellona…), lo temevamo e lo “odiavamo” ma, per nulla turbato dai nostri strali, continuò a far trionfare il Napoli e l’Argentina.

Vero, nel 1982 in Spagna Claudio Gentile lo aveva annullato ma Diego non era ancora al top della carriera, ancora un ragazzo in cammino sulla strada per diventare un fenomeno. Ad ogni modo, nei due mondiali successivi ci fece fuori entrambe le volte.

Quel che gli riuscì nel 1986 in Messico, con la sua Nazionale, ha del miracoloso: una Coppa del Mondo vinta praticamente da solo, trasformando una squadra di onesti pedalatori del pallone in un kommando della morte, disposto a tutto per lui e che lui, in cambio, trascinò fino al trionfo finale.

Suoi, contro l’Inghilterra nel quarto di finale, sia la rete truffaldina segnata con la mano (la “mano de Dios”) che il gol più bello della storia del calcio, 80 metri di campo palla al piede scartando tutta la squadra avversaria.

Tutto insieme appassionatamente: l’estasi e la truffa, la sublime grandezza e l’imbroglio meschino da nino de rua. Il 22 giugno del 1986, allo stadio Atzeca di Città del Messico, secondo, me si può cogliere l’essenza di Diego Armando Maradona, la ragione della sua grandiosità, il motivo per cui è stato il più grande calciatore di tutti i tempi.

Nel 1990 in Italia non gli riuscì il bis perché, a mio avviso, l’olimpo del calcio decise che non poteva tollerare un dio proletario e mise sulle sue tracce, in finale contro la Germania (ancora) Ovest, un arbitro ostile.

I suoi vizi fecero il resto, condannandolo dapprima ad un’ingloriosa fine di carriera (squalificato per doping ai Mondiali Usa 1994), trascinandolo infine ad una prematura dipartita da questo mondo.

Ma forse proprio questo rappresenta per me Maradona: il Dio proletario del calcio.

Un ragazzo di quartiere, come molti di noi. Un uomo che ha sfidato il Gotha del calcio, che non ha mai nascosto il suo essere di sinistra e che si è sempre schierato dalla parte dei più deboli. La sua parte, dopotutto: anche lui era debole, sicuramente fragile.

Un personaggio lontanissimo dagli esempi di stile di altri calciatori famosi, un uomo i cui eccessi lo rendevano ai nostri occhi molto umano e familiare. Mai è stato un esempio da imitare, piuttosto uno di noi che ce l’aveva fatta ma che era rimasto se stesso, con virtù, limiti e vizi del ragazzo del quartiere.

Curiosamente, provo la sensazione che ieri sia mancato uno che conoscevo, uno che abitava vicino a casa mia, con cui non ero propriamente amico ma di cui conoscevo la storia e per cui provavo simpatia ed un grande affetto.

Di ogni persona si ammira qualcosa, mentre altro ci respinge. Di Diego Armando Maradona ho amato il suo essere genuino e coraggioso, le sue frequentazioni mai nascoste con la sinistra sudamericana e, in ambito calcistico, la sua genialità, il suo inventare con facilità sconcertante soluzioni, dove tutti gli altri vedevano problemi.

Poiché, in fondo, sto scrivendo un encomio, mi limiterò a constatare che mai raccomanderei a mio figlio o ad un amico il suo stile di vita e certe altre frequentazioni.

L’aspetto veramente importante però, è che nessuno, amico o nemico che sia stato, è rimasto indifferente alla partenza di Diego. Qualcosa si è mosso dentro ad ognuno di noi, una reazione che soltanto le persone veramente speciali riescono a provocare.

Ciao Diego, Dio proletario del pallone, che tu possa trovare finalmente la serenità.

Io posso solo ringraziarti per avermi dimostrato, nel bene e nel male, che un altro calcio è possibile.