Come si è formato il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP)?

Anzitutto è utile ricordare che il TPP è nato nel 1979 a Bologna avendo come statuto sostanziale la Dichiarazione di Algeri ricordata sopra. Ci sono un presidente e quattro vicepresidenti che rappresentano di solito diversi continenti, poi c’è il segretario generale che sono io e una coordinatrice che sta a Roma. E’ un’equipe super-minima, la sede amministrativa è sempre stata a Roma presso la fondazione Basso, ma è “internazionale” perché i giudici che coinvolgiamo vengono da tutto il mondo.

Iniziammo con 75 giudici di 20 paesi, mentre ora sono in numero variabile e li scegliamo in base all’autonomia politica e intellettuale e alle competenze. Competenze che sono molto estese: all’inizio si parlava di “diritti dei popoli oppressi” che cercavano visibilità e riconoscimento, in un periodo immediatamente successivo alle dittature o al post-colonialismo. Non a caso la prima sessione, che simbolicamente, oltreché politicamente e giuridicamente, fu molto importante, riguardò il popolo Saharawi. In quel momento il Sahara Occidentale non aveva nemmeno una memoria scritta e la sentenza del Tribunale fu il primo documento, scritto da un gruppo internazionale di giuristi molto rispettati, che formalmente riconosceva la sua esistenza. In questo modo il popolo Saharawi ha potuto presentarlo all’Unione degli Stati africani, per essere via via riconosciuto.

Le prime aree di interesse erano le situazioni di conflitto-repressione a livello dei singoli paesi: Eritrea, Timor Est, Congo, Guatemala, El Salvador… Poi piano piano il minimo comune denominatore, sempre più evidente nello sviluppo della collettività internazionale, divenne lo spostamento dai luoghi di potere “statali” a un mix di gruppi e interessi economici: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale diventarono i rappresentanti, i “padroni” dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, cioè tutti i paesi che non avevano un autonomia funzionale dal punto di vista economico. E poi c’è tutto il discorso sulle transnazionali o multinazionali, che esistevano già negli anni Settanta, ma che negli anni seguenti crebbero di importanza a dismisura. Già col Tribunale Russell avevamo visto i loro legami con le dittature, ma erano

transnazionali in fieri; è alla fine degli anni Settanta che le transnazionali decollano, tanto che le Nazioni Unite mettono in piedi un gruppo per regolarle e poi lo smantellano. E così nel 1994 viene fondata l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che sancisce questo mondo “parallelo” agli Stati e come i trattati precedenti che avevano preparato il terreno, riconosce sempre più al commercio uno statuto diverso da quello degli esseri umani. Il Mercato ha a che fare con tutto ciò che è commerciabile e vendibile e agli esseri umani restano “i diritti”; ma se questi diritti escludono sempre più i diritti economici è chiaro che l’ambito dell’autonomia delle persone diventa sempre più ristretto.

Quando si comincia a palesare l’idea dell’Unione Europea, dello spazio Schengen, si pone la scelta: se si parla di statuto costituzionale, allora saranno gli esseri umani i protagonisti, se invece lo statuto crea una rete di libero scambio e di commercio è chiaro che l’interesse è la libera circolazione delle merci. Gli esseri umani possono circolare liberamente solo nella misura in cui sono cittadini che appartengono a un ordine economico. La sessione del Tribunale che facemmo a Berlino (la Germania era allora un luogo chiave delle prime migrazioni “moderne” di turchi e curdi, dopo il suo passato “italiano”) sul trattato di Schengen fu molto controversa, sottolineò come quel trattato non considerasse i diritti degli esseri umani.

Il popolo dei migranti rappresenta il culmine dell’espulsione degli esseri umani dai diritti universali. Tutte le sentenze sono facilmente accessibili fino all’ultima sull’immigrazione (nel 2017). Il Tribunale si incontra e scontra sempre di più con la crisi del diritto internazionale in quanto tale, perché un diritto che ha alla base i diritti degli esseri umani oggi non è più applicabile. Per esempio: stare a disquisire se si tratta di migranti economici, ambientali, di guerra non ha senso dal punto di vista del diritto internazionale. E invece è “legale”.

Nel libro pubblicato da poco “Diritti dei popoli e disuguaglianze globali” edito da Altreconomia, ricostruite la storia del Tribunale Permanente dei Popoli. Avete fatto in 40 anni 47 sessioni, più di una all’anno. Come facevate a raccogliere le testimonianze? Le registravate? Portavate le persone a parlare in pubblico? E dove si svolgevano? Nel paese stesso o fuori? Erano pubbliche?

Dipende; se il processo riguardava un paese dove c’è una dittatura certo non potevamo farlo lì: le testimonianze venivano in parte raccolte, in parte avvenivano in presenza, con tutte le garanzie di tutela e sicurezza per i testimoni. Per esempio facemmo due sessioni sull’Afghanistan, una in Svezia e una in Pakistan. Noi andammo in Pakistan vicino al confine a raccogliere le testimonianze di chi faceva parte della resistenza. In quel momento la Svezia con Olof Palme era molto sensibile nei riguardi della resistenza afgana; c’era l’invasione sovietica, usavano bombe proibite e il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) ci appoggiava. La sessione su Timor Est invece si svolse in Portogallo. Era un genocidio, non si entrava da nessuna parte e pensare di raccogliere testimonianze in loco era impossibile; vennero gli esuli e poi raccogliemmo voci attraverso la Croce Rossa, o Amnesty International, gruppi che avevano la possibilità di entrare nel paese.

Un’altra volta tenemmo una sessione sui pesticidi nelle Filippine: là c’era un’alta concentrazione di gruppi di sostegno internazionale contro i pesticidi che avevano chiamato rappresentanti delle loro organizzazioni, in modo da avere testimoni rappresentativi dei vari continenti. In questo lavoro di preparazione il Tribunale ogni volta creava collegamenti tra i gruppi che lavoravano sul terreno, in modo da dare l’idea che pur nella frammentazione si faceva parte di una sola progettualità. In questo modo, anche nelle sentenze, lo stile era quello di far emergere tutto dalle evidenze e non da una dottrina. I giudizi che abbiamo dato andrebbero analizzati in questo senso: per esempio rispetto a un fatto “storico” come la conquista dell’America, dove non c’erano testimoni, bisogna andare a vedere l’ideologia che c’è dietro la storia e come questa si è tradotta nel diritto internazionale. In quel caso il giudice, che era molto famoso, François Rigaux, aveva colto nel segno: questo è il diritto che si giudica! Se il diritto deve essere indipendente non può pretendere di essere infallibile, sennò sarebbe una chiesa coi suoi dogmi e i dogmi non si discutono. Il diritto è il contrario: anche noi “purtroppo” abbiamo i nostri dogmi e uno è quello della proprietà privata. In realtà non è un dogma, ma tutti la rispettano perché conviene. E siccome risale al diritto romano, che si deve studiare nel primo anno di legge, di lì non usciamo. Finché non si abolisce quell’esame il diritto sarà sempre un diritto dipendente dalla proprietà privata. Rigaux lo disse nel 1992, due anni prima della nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Era una sfida rivolta a giuristi ed economisti.

Tu credi che si possa o si debba mettere in discussione la proprietà privata?

Tutti gli economisti l’hanno già messa in discussione, è una cosa talmente ovvia che nessuno poi la discute. Basta prendere i libri di Piketty o le dichiarazioni di imprenditori come Warren Buffett o Bill Gates: tutti dicono che questo sistema, in cui i privati possono essere indipendenti in nome dei soldi, è assurdo. Il fatto che Steve Bannon esca di galera pagando 5 milioni di dollari non è una cauzione, ma significa comprare la libertà. Oggi i giuristi più lucidi dicono questo. Uno come Eugenio Raul Zaffaroni, membro della Corte Interamericana dei Diritti Umani, ha scritto un libro che si intitola “El genocidio por goteo”, il genocidio goccia a goccia, per giudicare i nostri sistemi economici, in particolare quello dell’Argentina. Questo è quello che noi dicevamo già parecchi anni fa: il genocidio come modalità per impedire lo sviluppo autonomo di un popolo.

Noi dobbiamo fare esplodere queste categorie classiche del diritto internazionale. Nessun “dittatore” oggi direbbe: “Io vado al potere per distruggere quel popolo…” Qual è l’industria mineraria che dice: “Io devo sfruttare quel popolo, le sue risorse e impoverire tutti”? Cioè nessuno “dichiara” il suo intento, quindi nessuno è autore in senso stretto di un genocidio, ma di fatto invece lo è.

Nel libro non accennate alle vostre spese come Tribunale. Quali erano normalmente e come le avete affrontate?

Innanzitutto noi che ne facciamo parte non riceviamo alcuna retribuzione; le persone che abbiamo coinvolto come giudici avevano viaggio, vitto e alloggio, che a volte è stato anche abbastanza spartano, pagati. La segreteria era assicurata dalla fondazione Basso. Ogni volta abbiamo trovato soluzioni, a volte siamo stati ospitati in pensionati. Ogni sessione doveva affrontare e risolvere il suo bilancio. Certo, negli anni Settanta la militanza era tale che i cosiddetti crowdfunding si facevano in fretta! C’erano Comuni ed enti che ci sostenevano… Poi è finito tutto e via via si sono trovate altre soluzioni. Per esempio, nel 1995 si fece in Italia in 3 sedi differenti un Tribunale sui bambini (si cominciava a parlare di traffico dei bambini), che fu molto importante. A Trento ci aiutò la Provincia, con sala e ospitalità, Save the children

invitava già dei personaggi e allungò la loro permanenza, a Macerata ci aiutò una sindaca, a Napoli c’era l’Istituto di Studi Filosofici che ci appoggiò. Una volta la Rede Radi Resch, fondata da Masina, sostenne la sessione sui bambini in Brasile. Ogni volta bisognava inventare. Per esempio, quando abbiamo fatto la sessione sui Rohingya, i gruppi degli esuli hanno fatto un’operazione di seria militanza finanziandone buona parte, mentre il governo malese ci ha messo a disposizione un albergo che mai ci saremmo potuti permettere.

C’è una sessione che ricordi particolarmente, che ha centrato più di altre l’obiettivo?

Ce ne sono state tante, ma ricordo una delle prime, quando usci la prima lista di desaparecidos in Argentina. Tutti la negavano, perfino Le Monde scrisse che “a Ginevra si era riunito un gruppo di attivisti, poveracci dicendo cose che non stavano né in cielo né in terra…”, dal momento che in Argentina c’è un governo democratico… Era il 1981, per dare l’idea della “follia” a livello internazionale. C’era ancora la dittatura e c’era una connivenza dei vari paesi europei. Quel nostro seme invece andò lontano e la presenza di personaggi come Cortazar e Galeano fece sì che la voce girasse.

Un’altra sessione di grande importanza fu quella sul Guatemala, poiché si svolse a Madrid e fu il primo atto internazionale nel “dopo Franco”. Venne Rigoberta Menchù. Ricordo che Galeano ripassò tutto punto per punto… Fu importante perché contribuì a cambiare l’atteggiamento della Spagna nei confronti della sua storia e della sua relazione con l’America Latina.

Di grande valore per quello che significò in quel momento storico fu la sessione del 1988 di Berlino su FMI e Banca Mondiale. In quel momento erano nati molti gruppi europei, come Attac e c’era una dispersione incredibile. Grazie alla genialità della Castellina e di un grande economista tedesco, Elmar Altvater, mettemmo insieme tutti e vi fu una formazione e acculturazione per tutti i partecipanti. Dopo nacquero i “contro-vertici”… Ricordo ancora la sessione finale nella Freie Universitat di Berlino, davanti a 2000 persone  in una Germania alla vigilia della caduta del muro. La partecipazione fu enorme e per i vari esuli in giro per l’Europa fu un’occasione di incontrarsi. Dava l’idea di un mondo che stava diventando globale, ma che dal punto di vista dei gruppi europei era ancora molto ristretto, provinciale.

Un’altra esperienza importante fu il Tribunale realizzato subito a ridosso della guerra in Jugoslavia: il gruppo preparatorio della Corte penale internazionale venne a vedere, a osservare come lavoravamo.

Una sentenza importante è stata quella riguardo agli armeni, a loro servì molto. Fu un’operazione culturale e politica, come per la conquista dell’America. Un’Europa che si stava formando, riconosceva la Turchia e non riconosceva il genocidio armeno, che era stato cancellato. Era una bella contraddizione. La cosa disturbava al punto che Mitterand ci proibì di riunirci in un istituto pubblico; venimmo ospitati dalla Sorbona. Anche la sessione sull’Algeria e sui crimini degli anni Novanta fu fatta a Parigi, ma non in un luogo statale; il governo non ce lo permise.

Abbiamo fatto una sessione sulla lotta NO TAV in Val di Susa; crediamo che per la gente della valle sia stata molto utile per allargare lo sguardo, uscire da una lotta “locale”, contestualizzarla e vedere le similitudini con altre situazioni. Inoltre era interessante per vedere come il diritto di uno Stato si contrapponeva a un diritto universale.

Una domanda un po’ scomoda: come mai siete poco conosciuti?

Primo: perché non siamo bravi nella comunicazione, pur avendo nella fondazione Basso una scuola di giornalismo! Secondo: i giornali si sono progressivamente trasformati e se all’inizio parlavano di noi, di quello che facevamo, piano piano siamo spariti. Non vogliono e non sanno uscire dalla cronaca; i contenuti non interessano più e questo spesso avviene anche per i giornali di sinistra. In occasione di una sessione a Parigi sui migranti abbiamo chiamato alcuni giornalisti che conoscevamo e loro ci hanno dato risposte vaghe ed evasive.  Del diritto non interessa nulla a nessuno. Anche in Italia, se ci facciamo caso, si parla tanto di migranti, ma sono state eliminate tutte le voci che riguardano le critiche alle istituzioni. Il lavoro che abbiamo fatto sui migranti, i diritti e l’Europa non l’ha ripreso NESSUNO.

Come diceva già Basso: “Il diritto dei popoli è sparito dall’agenda politico culturale in generale. I giornalisti constatano, ma non si cambia.” Si può fare un parallelismo con la parte scientifica, se si guarda cosa succede col Covid; ora tutti constatano, ma non c’è un serio coordinamento degli scienziati, ognuno racconta quello che vuole. Faccio un altro esempio: se il nostro presidente Ippolito, dice una cosa sul referendum, il Manifesto la pubblica, ma se parla di diritti umani o altro, non la pubblica. Altro esempio: abbiamo prodotto tantissimo materiale sulla Colombia: il Tribunale non viene mai nominato negli articoli di giornale.

I linguaggi devono rimanere separati. Piketty può parlare di disuguaglianze, ma se passi dalla descrizione e quindi accettazione della realtà all’affermazione che questo è illegale e illegittimo non va bene. Il modello non si può mettere in discussione. E’ una follia. Come diceva il vecchio dom Helder Camara negli anni Sessanta: “Finché parlo di povertà va tutto bene, ma se chiedo perché ci sono i poveri… ecco che divento comunista.” L’atteggiamento dei governi europei nei confronti dei migranti è terribile: mentono sapendo di mentire.

Credi che i paradisi fiscali siano un tema importante da trattare?

Importantissimo: gli economisti seri lo mettono tra i punti fondamentali da affrontare e risolvere. Come la proprietà privata, quella che Rigaux, esperto di diritto internazionale privato, considerava il peccato originale: nessuno sa che cosa sia, ma tutti ci credono e fanno come se ci credessero e quindi non la mettono in discussione.

E la riduzione dell’orario di lavoro?

Si deve innanzitutto ridurre la quota di guadagno e corruzione, senza questo non si va da nessuna parte. Bisogna parlarne, ma non per farne uno slogan; bisogna avere i dati in mano, per esempio quello dello sfruttamento schiavista nelle campagne.

C’è stata una sessione del Tribunale che non siete riusciti a fare?

Sì, una sessione con i curdi: quelli che ci stavano aiutando a prepararla sono stati ammazzati.