All’inizio degli anni 70, in una stanzetta nell’edificio della Central do Brasil (Stazione Centrale di Rio de Janeiro, N.d.T.), dove lavorava, mio padre fu presentato a un ingegnere tedesco di nome Klaus. Il suo compito era di occuparsi della manutenzione dei treni importati e mio padre avrebbe dovuto accompagnarlo nelle officine.

Vivevamo sotto una dittatura e la Rete Ferroviaria Federale era controllata dai militari. Mio padre, ufficiale federale civile, era un assistente amministrativo e non un ingegnere. Il suo lavoro di routine era di redigere promemoria e organizzare archivi, in cui dattilografava i documenti. Come molti in ufficio, aveva un fermacarte di vetro e della gomma arabica per sigillare le lettere. C’era anche una vecchia Remington sul suo tavolo.  Era un momento in cui stava crescendo la presenza tedesca in Brasile e avevamo pure un generale presidente che si chiamava Geisel. In quell’anno abbiamo firmato un accordo di cooperazione nucleare, avevamo un televisore Telefunken, e l’auto più popolare, una Volkswagen. Il sistema televisivo era il PAL-M e l’accordo nucleare firmato con Berlino ci avrebbe dato la prima centrale nucleare.

L’ingegnere Klaus era l’opposto dello stereotipo del tedesco che avevamo in Brasile e che la generazione di mio padre, che ha vissuto la seconda guerra, poteva immaginare. A quell’epoca, i film mostravano sempre gli scienziati tedeschi come nemici. Poi sarebbero stati sostituiti dai russi. La Guerra Fredda ha salvato la loro immagine.

L’ingegnere Klaus non rispettava il protocollo e arrivava sempre in ufficio abbracciando tutti, distribuendo sorrisi e simpatia. Io di solito accompagnavo mio padre in ufficio il venerdì, e mi mettevo a giocare con la carta carbone e a fare disegni, seduto per terra dietro il suo tavolo. Lui mi accarezzava sempre la testa quando mi vedeva, mentre mi diceva un sacco di parole che non ho mai capito, ma visto che erano accompagnate da caramelle e cioccolatini mi piacevano sempre. Mi ricordo di questi pomeriggi, dei timbri dalle forme più svariate, l’odore di grasso che veniva dalle officine.

Ogni anno, Klaus veniva in Brasile e mio padre lo portava allo stadio Deodoro. Era un’occasione molto attesa e importante. Portava regali per tutti e per mio padre, con cui adorava parlare di calcio e di donne, e adorava i suoi miscugli di cachaça con altri liquidi colorati che vedeva sulla mensola là in casa. Pur parlando poco portoghese, Klaus strinse una grande amicizia con mio padre, un carioca bohémien che non aveva nessuna apparente connessione con un giovane della classe media cresciuto nel dopoguerra in Germania. Le amicizie sono imprevedibili e per questo fantastiche.

Con il passare degli anni, Klaus cominciò a venire con noi anche alle partite del Flamengo al Maracanã, per vedere Zico brillare sull’erba, e alla partitella della domenica dei funzionari della RFFSA, allo stadio Deodoro. Non mi posso scordare l’hot-dog squisito e la coca-cola venduta dagli astronauti – o perlomeno era così che me li immaginavo, con quella tenuta bianca di plastica, gonfiata. I tubi che maneggiavano venivano da uno zaino immenso che portavano sulle spalle e che sputava spuma di coca-cola nel bicchiere, per qualche centesimo. Mio padre ha sempre pensato che li accompagnavo solo per bere bibite. Divoravo hot-dog, gelati e non prestavo molta attenzione al gioco.

Mio padre e Klaus gridavano per Zico e poi bevevano finché non si reggevano più in piedi. Erano così amici che mio padre gli ha dedicato un drink, uno dei miscugli che faceva e che ha chiamato “Samba di Klaus a Berlino”. Il vecchio adorava parlare dei suoi drink e aveva addirittura un quadernetto con i nomi, alcuni impubblicabili. Erano tempi di moralismo e censura, e non ho mai potuto leggere quei nomi. So solo che non erano cose per bambini. In segreto vendeva storie erotiche a delle riviste, ma questo l’ho scoperto solo dopo la sua morte.

Ogni anno Klaus portava regali per i figli dei funzionari e specialmente per me, che ero l’unico bambino ad andare in ufficio. Non so perché, ma erano i giorni più felici della mia infanzia, visitare le officine, vedere i treni smontati e i pezzi per terra. In ufficio, carte, graffette, fermacarte e gomma arabica. I regali erano sempre delle penne con un liquido dentro, che faceva salire e scendere un treno che entrava in stazione. Lui mi diceva che era la Hauptbahnhof, una specie di Central do Brasil, ma più grande e più imponente, dove lui lavorava. E io sognavo di vedere quella stazione, molto più grande della Central do Brasil. Era un gigante che appariva nei miei sogni di bambino.

Io mi sedevo per terra e giocavo con il pennarello, facendo salire e scendere il treno, facendolo entrare nella stazione. Qualche volta sono arrivato a rompere la punta della penna per capire come funzionava, altre volte invece la mettevo via, per poi fare vedere cosa volevo fare da grande: essere macchinista della Hauptbahnhof di Berlino, per controllare tutti quei treni. Volevo vedere Berlino di inverno, entrare col soprabito nella stazione, con le valigie in mano. Sentire il fischio della partenza.

Mio padre andò in pensione ancora alle fine degli anni 70 e non abbiamo più visto l’ingegnere Klaus. Qualche volta ci mandò delle cartoline da Treir, una piccola città dove si era trasferito. Un’altra cartolina ce l’ha mandata all’inizio degli anni 80, con la stazione che tanto amava, ma come altri amici che abbiamo perso lungo il cammino, anche lui è sparito.

Avevo perso i miei pennarelli e mio padre non aveva più l’amico straniero con cui andare al Maracanã. Chiedevo sempre a mio padre se non aveva voglia di andare fino alla Hauptbahnhof a Berlino per conoscere la loro “Central”, ma il signor Adalberto era un uomo dai sogni modesti, e a quell’epoca andare in Europa era impossibile per un ferroviere brasiliano. Entrambi, Klaus e mio padre, non hanno mai avuto il piacere di camminare nella stazione e negli uffici di Berlino, insieme.

Ora, circa 40 anni dopo, mi preparo a partire da Francoforte con destinazione la Hauptbahnhof, Berlino. Metterò piede nella vecchia stazione da solo. Non sogno più di controllare i treni, ma ho lavorato per gli ultimi quattro anni nell’edificio della Central do Brasil e ora vado a conoscere quella stazione che è stata per decenni nel mio immaginario. Sarà come prendere in mano di nuovo quel pennarello e so che mi correrà fuori una lacrima dagli occhi, come un treno, in direzione della banchina finale. Che i vecchi, non più su questi sentieri, sorridano… perlomeno, quel bambino che giocava col pennarello, finalmente, è arrivato fino a lì.

Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza. Revisione di Silvia Nocera