Nel 2017, dopo il primo turno di elezioni presidenziali, un amico tunisino mi confidò: “al secondo giro voterò Macron. Ho paura di essere rispedito al mio paese, se passasse Le Pen!”. Un sostenitore appassionato di Mélenchon testimoniava così la sua paura viscerale, condivisa allora da milioni di francesi. Il riflesso della paura: nemico insidioso della riflessione, specchio riflesso della sconfitta della ragione che definisce il Front National. A metà del mandato presidenziale la paura ritorna: due francesi su tre pensano che l’elezione di Macron sia stata una cosa negativa. I sondaggi riportano di nuovo un testa a testa con Le Pen. Sarà sufficiente la paura, come fu nel 2017, a impedire l’ascesa dell’estrema destra?

In occasione del secondo turno di elezioni, la paura fu strumentalizzata con successo. Ma questa grossolana leva politica potrà essere credibile nel 2020, in piena crisi da Covid-19? L’irruzione scioccante di un’epidemia distruttiva in un ventunesimo secolo altamente scientifico-tecnocratico ed epistocratico sta portando alla luce le paure più arcaiche. È una memoria emozionale, rettiliana, la più irrazionale nel cervello umano. Quest’epidemia rievoca la peste di Atene del V secolo, che uccise un terzo degli abitanti e persino Pericle, o ancora la Peste Nera medievale, che nel XIV secolo si portò via circa il 40% della popolazione europea, per non parlare dell’influenza spagnola durante la prima guerra mondiale. La paura del contagio detta quasi ogni nostra condotta di vita quotidiana: limitare i contatti, non uscire più di casa, mantenere la distanza dagli altri. Abbiamo a che fare con un virus “attivo su tutto il territorio”, estremamente contagioso, che resta in circolo nell’aria. Gli scienziati non ne conoscono precisamente la resistenza sulle superfici né sanno se contrarlo genera immunità, e in tal caso che grado di immunità e quanto possa durare: tutte queste incertezze possono solo intensificare la paura.

Come spiegare, altrimenti, che il popolo francese abbia accettato così docilmente due mesi di confinamento che, con l’aiuto dello stato di emergenza, lo priva di una delle sue libertà fondamentali, la “libertà di circolazione”, garantita dall’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani? Per turbare gli animi un altro po’ e riattivare quel riflesso della paura che ha funzionato così bene nel 2017, Macron non esita a lanciare una frecciatina retorica rozza, degna di quei sofisti che cercavano d’imporre una falsa verità basandosi sulla ripetizione di una pseudo-evidenza. Nel discorso del 16 marzo scorso mette in allerta il popolo sulla gravità della situazione attraverso un’anafora (figura ormai logora nei discorsi politici: Sarkozy, Hollande…). “Siamo in guerra”, ripete come un mantra, superando persino un’espressione di Donald Trump, secondo cui il Covid-19 sarebbe “il nemico invisibile” (citazione biblica!). I due ultraliberali si sono scambiati la parola a vicenda. Almeno fino a un’intervista del 17 aprile al Financial Times, in cui il presidente francese accusa la Cina di essere colpevole di aver nascosto la verità sul virus e falsato il numero dei morti. Anche in questo caso, l’amministrazione americana non può essere da meno: il nemico deve diventare un capro espiatorio.

Ogni volta la stessa strategia infantile. (Come si fa a lasciarsi abbindolare?). Designare un nemico, che sia visibile (Le Pen, la Cina) o invisibile (un virus), assicurandosi così una “unione nazionale” per sconfiggerlo, invocare ad alta voce la necessità di una “unione sacra” e imbavagliare il dissenso. E, alla minima voce che si solleva per mettere in discussione questo governo che “sta facendo tutto il possibile” (?) per battere il nemico, si risponde: “indecente”! Aspettiamo che il nemico sia sconfitto per poter criticare! A quanto pare il motto che Orwell proponeva nella sua distopia totalitaria 1984 non è mai stato tanto attuale: “La guerra è pace!”, anzi no, meglio ancora: “la paura è pace!”.

Eppure sotto sotto sappiamo di non essere in guerra. Si dichiara guerra a un paese, a un popolo… un virus non è né l’uno né l’altro. Steinmeier, Presidente della Repubblica federale tedesca, lo ha giustamente fatto notare a Macron: “questa pandemia non è una guerra, è un test della nostra umanità!”. La guerra non sarebbe altro che una metafora usata per innescare la nostra paura viscerale.

La paura è pace! Quando si ha paura si perdono i propri mezzi, non si riesce più a ragionare, si è disarmati, impotenti, e si finisce per appoggiare il primo salvatore senza riflettere. La paura è un’emozione primaria: è sana in situazioni d’urgenza estrema, per la nostra sopravvivenza, è un riflesso che permette la fuga davanti al pericolo, ma può anche essere uno shock. Avere paura significa non pensare. È un riflesso primario situato nella parte rettiliana del nostro cervello, molto lontana dall’area della riflessione nella neocorteccia, preposta all’affinamento dello spirito critico.

Il governo Macron attiva a intervalli regolari, sempre più ridotti, il riflesso della paura nella popolazione e persegue così un’unica strategia: sedare la critica e inoculare il solo vaccino disponibile per questa emozione che lui stesso ha suscitato, un grande slancio di unione nazionale degno delle folle osmotiche e dei contagi affettivi che Sigmund Freud ha descritto tanto bene già nel 1929, ne Il disagio nella civiltà. Stiamo barattando un’unione osmotica per una paura che ci lascia scioccati? Che antidoto è questo?

C’è qualcosa di osceno in questa formula incessante della Unione Sacra (Union Sacrée), invocata ancora, più di recente, in un tentativo maldestro di colpevolizzare i senatori che lo scorso 5 maggio hanno respinto il piano di allentamento delle misure proposto dal primo ministro. Union Sacrée, sì, ma cos’hanno in comune l’alibi di un governo debole, che tende a deresponsabilizzarsi, e il nome che fu dato al riavvicinamento politico di tutte le tendenze francesi, politiche e religiose, durante la Grande Guerra? C’è da interrogarsi…

Di Natalie Depraz

Natalie Depraz è filosofa e docente all’Université de Rouen, Normandie.

Traduzione dal francese a cura di Maria Fiorella Suozzo