Non si può pensare che tutti i paesi europei del Mediterraneo neghino un porto sicuro di sbarco condannando i naufraghi a morte certa.

1. Un rapporto diffuso da Alarmphone comincia a squarciare il velo di omertà e di disinformazione che ha nascosto le responsabilità dell’operazione di push back (respingimento) verso la Libia attuata nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 aprile con il concorso delle autorità italiane, maltesi, libiche ed europee (dell’agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX).

Una responsabilità tanto più grave in quanto non si è verificato soltanto un respingimento collettivo vietato dalle Convenzioni internazionali verso un paese che secondo le Nazioni Unite non può definirsi sicuro, che non offre place of safety (POS), ma dodici persone hanno perso la vita, cinque prima, per i ritardi nell’azione di soccorso, poi altre sette nelle fasi concitate del trasbordo nella notte, mentre il mare era in tempesta, con onde alte più di due metri e un vento che soffiava a 25-30 nodi.

È indubbio che si sia trattato di un respingimento collettivo, in quanto i naufraghi sono stati riportati indietro da uno strano peschereccio maltese, privo di segni di riconoscimento e di nominativo internazionale, il Maria Christiana, che è entrato nel porto di Tripoli riconsegnando direttamente i sopravvissuti alla Guardia costiera libica. Sopravvissuti che, nonostante l’intervento di prima assistenza in banchina di rappresentanti dell’UNHCR e dell’OIM, sono poi finiti rinchiusi nel famigerato campo di detenzione di Al Sikka, a Tripoli, dove staranno già subendo altri abusi, e dove saranno presto dati di nuovo in pasto ai trafficanti.

Se un dubbio si può sollevare sull’ingresso del “peschereccio” maltese nel porto militare di Abu Sittah riguarda il ruolo avuto nell’operazione di push-back dalla nave della Marina Militare Italiana Gorgona, presente a Tripoli per l’operazione Nauras. Sembra che la nave si sia dovuta allontanare dal porto nella giornata di domenica 12 per gli intensi bombardamenti in corso su Tripoli, ma sono mesi che la città viene bombardata, e appare singolare che la nave sia rientrata in porto proprio “di scorta”, di poppa al peschereccio maltese. Che aveva recuperato i naufraghi nella notte a 30-40 miglia a sud di Lampedusa, nella zona SAR (ricerca e salvataggio) ancora controversa tra Italia e Malta, dopo il temporaneo rallentamento di una grossa nave cargo, la IVAN, che dopo qualche ora veniva fatta proseguire.

La collaborazione nelle operazioni di push back rientra forse nell’assistenza e manutenzione delle imbarcazioni (donate in parte dall’Italia) e nei compiti di addestramento della Guardia costiera “libica”, che sono i compiti che la missione Nauras assolve in Libia sulla base del Memorandum d’intesa firmato a Malta il 2 febbraio del 2017 ? Si è davvero realizzata, sebbene le apparenti contrapposizioni, un’intesa tra Italia, Malta e governo di Tripoli per impedire ai migranti in fuga dai campi di detenzione lo sbarco in Europa? Quali sono gli accordi segreti che intercorrono tra Malta e la guardia costiera libica, e che livello d’integrazione hanno raggiunto con i protocolli operativi stipulati da tempo dall’Italia con il governo di Tripoli? Nessuno si illuda che il gioco allo scaricabarile possa durare ancora a lungo, quando sono in gioco tante vite umane.

2. Nella notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, 30 miglia a sud di Lampedusa era stata avviata una attività SAR (Search and rescue) mirata ad un target preciso, sembrerebbe su un tardivo impulso delle autorità maltesi, ma con la partecipazione delle autorità di coordinamento marittimo italiane. Che tuttavia non avevano fatto uscire alcuna motovedetta da Lampedusa, limitandosi ad inviare un elicottero, per delegare poi il primo intervento di soccorso ad una grossa nave commerciale la Ro-Ro Ivan che operava sulla linea Khoms-Genova. Intervenivano successivamente su ordine delle autorità maltesi due mezzi, tra cui uno – il Maria Christiana – definito come “peschereccio”, ma che sembrava piuttosto una piccola nave destinata a scopi ben diversi dalla pesca e privo di segni d’identificazione e di nominativo IMO internazionale. È rimasta misteriosa la natura e la nazionalità del secondo mezzo navale coordinato dai maltesi che sarebbe intervenuto nell’operazione di soccorso. Si trattava forse di una motovedetta militare maltese?

L’impegno della nave di bandiera portoghese durava solo qualche ora, perché non appena sopraggiungeva il “peschereccio” maltese Maria Christiana, verso le 4 di martedì mattina, si verificava il trasbordo dei naufraghi sul mezzo più piccolo e quindi la morte di alcuni migranti che tentavano di raggiungere la nave più grande che si allontanava in direzione della Sicilia. Sarebbe stata importante la testimonianza del comandante della nave portoghese Ivan ma non sembra che le autorità portuali di Genova, all’arrivo della nave in porto, giovedì 16 aprile, lo abbiano sottoposto a una qualche indagine, e la nave è ripartita subito per un altro viaggio. Anche se in prossimità, e forse a vista della nave, avevano perso la vita alcune persone, poco prima che sopraggiungesse in soccorso il “peschereccio” maltese inviato dalle autorità di La Valletta.

Si deve aggiungere, come risulta dal report di Alarmphone, che le autorità italiane, come quelle maltesi, erano state allertate da giorni dell’esistenza di questo barcone in difficoltà, e che lo stesso era stato localizzato nel Canale di Sicilia con almeno 24 ore di anticipo rispetto al momento del tragico trasbordo nel corso del quale alcuni naufraghi annegavano. Se, come avveniva fino al 2017, da Lampedusa fossero uscite le motovedette veloci della Guardia costiera classe 300 o la motovedetta della Guardia di finanza ferma in porto per tutta la notte tra il 13 e il 14 aprile scorso, avrebbero potuto soccorrere tutti i naufraghi già nella giornata del 13, anche prima che il mare s’ingrossasse. L’impegno italiano si è limitato all’invio di un aereo e poi nella notte di un elicottero. Che cosa ha visto questo elicottero e che ruolo ha avuto nell’attività SAR a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile, che ha portato al respingimento collettivo in Libia e alla morte di alcuni naufraghi?

Evidentemente da parte delle autorità maltesi e italiane si voleva che l’operazione si concludesse con il coinvolgimento dei libici ed il respingimento collettivo da parte dei naufraghi, come poi si è verificato. Si è utilizzato a questo fine il “peschereccio” maltese Maria Christiana, un mezzo non tracciato dai sistemi satellitari come Marine Traffic, che registra le rotte di tutti i veri pescherecci, un mezzo di natura alquanto sospetta, privo di segni d’identificazione, che li ha poi riportati nel porto militare di Tripoli, in violazione di tutte le Convenzioni internazionali e delle Raccomandazioni dell’ONU e del Consiglio d’Europa. «Nessuno può essere riportato in Libia mentre si trova in acque internazionali», ha dichiarato Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato per i diritti dei rifugiati. «Non è la prima volta che accade: anche nell’altro episodio a coordinare il soccorso è stata Malta». Sulla pagina Twitter di Unhcr Lybia si vede una foto del “peschereccio” maltese Maria Christiana fermo in banchina a Tripoli. Un peschereccio che assomiglia più ad una motovedetta che ha un mezzo da pesca, quasi del tutto privo dell’armanento che caratterizza i veri pescherecci.

3. Le operazioni di respingimento collettivo da parte dei maltesi verso Tripoli non sono certo una novità, l’ultimo caso si era verificato nel mese di marzo di quest’anno, prima che Malta dichiarasse, sull’esempio dell’Italia, la chiusura dei porti definiti “non sicuri” per l’emergenza COVID-19. In quell’occasione anche le Nazioni Unite avevano condannato il comportamento delle autorità maltesi e di Frontex. Mai però un respingimento si era verificato tanto vicino all’isola di Lampedusa, e con un tale coinvolgimento delle autorità italiane, che hanno partecipato ad una fase decisiva delle operazioni di soccorso, per poi scomparire nel nulla, con il rientro alla base, attorno alle 4 del mattino, dell’elicottero partito da Lampedusa. Non ne parla neppure il rapporto di Alarmphone, ma quella notte di burrasca un elicottero si è levato in volo dall’aeroporto di Lampedusa per andare proprio nella zona in cui era ferma la nave IVAN allertata dalle autorità maltesi. Dunque esattamente sopra il barcone in mare ormai da tre giorni. E in volo c’erano, dalla sera di domenica, velivoli maltesi e altri assetti aerei italiani. Ma nessun mezzo delle due guardie costiere si è avvicinato alla zona dove era stata segnalata la presenza del barcone in difficoltà.

In quella notte di Pasquetta a sud di Lampedusa sono morte sette persone, prima che “migranti”, ed altre cinque erano morte di stenti nei giorni precedenti a causa del mancato soccorso del barcone da parte delle autorità statali. Che si affannavano invece a negare l’esistenza di un naufragio, senza rendere però conto di dove fosse finita l‘imbarcazione che Alarmphone aveva già segnalato a tutti gli stati responsabili delle aree SAR contigue nella giornata di venerdì 10 aprile.

La Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio (SAR) ha creato per ciascuno Stato una zona specifica di competenza e di responsabilità. Nel tempo si è registrato un dissenso crescente riguardo ai rapporti fra l’Italia e Malta. Il dissenso deriva dal fatto che nelle Convenzioni internazionali la determinazione delle zone SAR è rimessa all’IMO (Organizzazione internazionale del mare) su base convenzionale e quindi rimangono sempre incerti gli accordi tra le parti sulle stesse zone di delimitazione della responsabilità. Nel caso specifico di Italia e Malta le zone SAR in alcuni tratti di mare si sovrappongono. E l’evento SAR nel quale, nella notte tra l’1 e il 14 aprile, hanno perso la vita alcuni naufraghi, sembra che si sia verificato proprio al limite della zona SAR a sud di Lampedusa controversa tra Italia e Malta.

Secondo il diritto internazionale, quando uno stato ritarda a intervenire nella sua zona SAR, qualunque stato vicino che sia informato dell’evento di soccorso è obbligato ad intervenire anche al di fuori della propria zona di competenza. Un obbligo assoluto, per la salvaguardia della vita umana in mare, che non può cedere di fronte ai dissidi tra gli stati sull’interpretazione delle Convenzioni internazionali o sulla ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio (SAR). Un obbligo che impone a chi si trova più vicino o dispone dei mezzi che possono garantire un salvataggio più veloce, di intervenire immediatamente. Le politiche migratorie e le azioni di contrasto contro le ONG, che ancora operano attività di search and rescue in acque internazionali, non si possono spingere fino all’omissione concertata di soccorso. L’Unione Europea non si può ridurre al ruolo di copertura di operazioni di respingimento collettivo delegate ai maltesi e ai libici con la connivenza italiana.

La farsa della zona SAR libica non regge più, soprattutto per la situazione attuale del conflitto civile in Libia, oltre che per la recente dichiarazione del governo di Tripoli che dichiara “non sicuri” i propri porti. Che “non sicuri” erano da tempo, anche perché la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E le testimonianze concordi di tutti coloro che vengono fermati in mare dalla sedicente “Guardia costiera libica”, spesso collusa con i trafficanti, e quindi riportati a terra nei centri di detenzione, confermano, anche secondo Amnesty, stupri e torture a scopo di estorsione o per pura crudeltà.

Siamo alla vigilia di una stagione terribile, mentre il COVID-19 sta stravolgendo gli obblighi internazionali degli stati, una stagione nella quale se continueranno queste violazioni delle Convenzioni internazionali dovremo contare ancora un numero imprecisato di vittime delle scelte di “chiusura dei porti” condivise da Italia, prima, e poi da Malta e, solo come dichiarazione di principio, dal governo di Tripoli. Non si può pensare che queste vittime siano sottratte a qualsiasi giurisdizione, come le persone che si trovano in acque internazionali e sono in una situazione di evidente di stress, a rischio di naufragio. Non si può pensare che tutti i paesi europei del Mediterraneo neghino un porto sicuro di sbarco condannando i naufraghi a morte certa.

Occorre che su quanto successo nella notte tra lunedì di lunedì di Pasqua e martedì 14 aprile la Magistratura italiana apra un’indagine, ed al contempo che il Parlamento avvii una commissione d’inchiesta, per accertare tutte le responsabilità e per evitare che queste tragedie continuino a ripetersi. La morte per annegamento o per inedia in mare è conseguenza dello stesso abbandono nel quale muoiono tanti malati di COVID-19, un abbandono che suscita oggi la nostra pietà, una situazione terribile che sta spingendo la magistratura a svolgere indagini serrate. Anche sui morti per abbandono in mare nei giorni di Pasqua si dovrà indagare con lo stesso impegno, perché questi comportamenti omissivi degli stati non si ripetano ancora. E perché sia effettivamente garantito il diritto alla vita di tutte le persone migranti che nei prossimi mesi saranno ancora costrette a fuggire da un paese in preda alla guerra civile e allo scontro tra milizie, spesso colluse con i trafficanti, che riducono gli esseri umani alla condizione di merce da smaltire al miglior prezzo.

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