Pietro Rivasi, esperto di Arte urbana, di Writing in particolare, è colui che ha curato il progetto Collettivo FX/Pablo Allison: Exodus inauguratosi il 10 novembre alla galleria Vicolo Folletto Art Factories di Reggio Emilia (vd. articolo del 15 novembre). Il suo è un curriculum di tutto rispetto: a partire dagli anni ’90 collabora a Stradanove.net e Garage Magazine. Dal 2002 organizza per alcuni anni Icone – Festival internazionale di arte urbana. Per tre anni è socio della galleria modenese D406 – Fedeli alla linea; collabora alla creazione dell’archivio sull’Arte urbana della Biblioteca d’Arte Luigi Poletti. Nel 2015 ha curato l’evento Talks per The bridges of graffiti, mostra collaterale alla LVI Biennale di Venezia. Dell’anno successivo è 1984. Evoluzione e rigenerazione del Writing”, tenutasi presso la Galleria Civica di Modena. Con Andrea Baldini è autore di Un(authorized)//commissioned. Vandalism as art: unauthorized paintings VS institutional art shows and events – the Modena case studio, pubblicato da Wholetrain Press.

Pietro, Graffiti, Writing, graffiti Writing, Street Art, muralismo, Arte urbana. Facciamo un po’ di chiarezza?

Compito non facile per diversi motivi. Il primo è la disgregazione della ‘scena’ e la mancanza di una storicizzazione condivisa, per cui per ogni persona pronta a sostenere una definizione ne troverai almeno altre due a fare distinguo; in secondo luogo, questi ‘filoni’, per me tutti a pieno titolo appartenenti al macro insieme dell’arte contemporanea, hanno visto nel tempo i loro confini sfumare fino a sovrapporsi in certi casi.

Ad ogni modo, ribadirò quella che per me è la semplificazione che al momento ritengo più corretta, dopo averne discusso non poco con diversi amici, artisti e curatori.

Graffiti è il termine dispregiativo, e anche abbastanza inappropriato storicamente, col quale i media si sono riferiti al name-Writing/style-Writing/Writing di scuola statunitense. Il Writing è un movimento con origini piuttosto specifiche ed identificabili. Negli anni ’60 l’abitudine, diffusa più o meno fin dalla notte dei tempi, di lasciare un segno del proprio passaggio nello spazio pubblico conosce, per varie questioni socio-economiche contingenti, un picco. A New York e Philadelphia molti ragazzi scrivono in giro il loro nome, a volte un nomignolo/nickname, a volte accompagnato da un numero. Questa ‘moda’ raggiunge proporzioni tali da scatenare una gara a chi sia tanto prolifico ed originale da emergere rispetto agli altri. È così, semplificando molto, che ha origine la style war (competizione stilistica fra writer) che in breve tempo porterà alla nascita del Writing come lo conosciamo oggi e che modificherà per sempre l’uso e la percezione dello spazio pubblico in tutto il mondo. Questo fenomeno nasce spontaneo, al di fuori dei circuiti accademici, e si esprime liberamente su qualsiasi superficie la città metta a disposizione. È illegale, per la legge è vandalismo, e finisce sin da subito nel mirino delle politiche del decoro del sindaco di New York, Ed Koch, come esempio negativo della relazione fra degrado e comportamenti criminali sostenuta dalla Broken windows theory (teoria delle finestre rotte), elaborata da G. L. Kelling e J. Q. Kelling nel 1982.

La Street Art è un fenomeno meno codificato e più variegato, non è vincolato alla scrittura ed al nome, né all’uso quasi esclusivo di vernice spray e marker. Ci sono stati artisti che senza permessi hanno usato le strade per fare arte prima che nascesse il Writing (la manifestazione Parole sui muri, che si svolse Fiumalbo nel 1967 e nel 1968, ne è un esempio) e questa per me può essere definita Street Art. Ad ogni modo, da circa 20 anni a questa parte, con questo termine ci si riferisce principalmente ad un fenomeno simile al Writing nel quale però alla firma si sostituisce un gesto pittorico figurativo, astratto o ‘testuale’: si svolge in strada, senza permesso, con l’uso dei materiali più vari (poster, adesivi, spray, tempera, pennarelli, installazioni, etc.) ed ha comunque nel getting up (emergere nello spazio urbano attraverso la realizzazione di una grande quantità di interventi) uno dei suoi tratti distintivi. Alcuni nomi? Possiamo partire da Keith Haring, che opera durante il boom del Writing newyorkese, per arrivare a Pea Brain a Bologna alla fine degli anni ’80, a Obey, etc.

Il Muralismo è invece una forma d’arte storicizzata, sviluppatasi in diverse parti del mondo, in diversi periodi e con diverse declinazioni: Messico, Germania, Italia… Rispetto al tema di questa intervista, ciò che ci interessa è notare come negli ultimi 20 anni il Writing abbia spinto lo sviluppo della cosiddetta Street Art. Tanti writer hanno intrapreso questa strada per emergere rispetto ad una saturazione dei segni calligrafici, ed in seguito al suo successo istituzionale, oggi assistiamo all’enorme ondata di nuovo muralismo. La richiesta massiccia, istituzionale, pubblica e privata, di interventi di decorazione murale in città e paesi, spesso promossa come risposta al “degrado” urbano è il più delle volte una trovata mediatica per la cosiddetta ‘rigenerazione’. La popolarità che questi interventi hanno avuto negli anni ha fatto sì che artisti provenienti dal mondo del Writing e della Street Art si siano trovati nella posizione di poterne fare un lavoro; contemporaneamente, ha dato a tanti, che non hanno mai fatto esperienza né come writer né come Street Artist, la possibilità di dipingere muri. Sempre grazie a questa grande popolarità, sono spuntate anche tante figure di “curatori” di manifestazioni outdoor o mostre. Questo fenomeno, a mio parere, ha provocato una importante mistificazione, attribuendo ad artisti, magari anche decisamene talentuosi, l’etichetta ‘street’, oggi molto in voga nelle “indicizzazioni web”, senza la quale magari non avrebbero avuto spazio su muri, in gallerie o musei, penalizzando implicitamente chi la storia di questi movimenti l’ha effettivamente ‘scritta’, pagandone a volte notevoli conseguenze.

Con il generico termine Arte Urbana penso possiamo definire tutte queste pratiche, per le quali comunque preferisco Arte Contemporanea.

Pablo Allison e Collettivo FX, Writing e Street Art, molti ritengono incompatibile questo connubio.

È da sempre una sciocchezza secondo me! In alcune situazioni magari è ‘incompatibile’ la mercificazione di una estetica ed una cultura nel momento in cui alcuni writer decidono di contestarla, andando sopra a murales o lavori di Street Art ritenuti, a torto o ragione, realizzati solo con finalità di marketing, esplicitamente o implicitamente rivendicano il fatto che i “graffiti” sono un fenomeno che nulla ha a che fare con istituzioni e mercato, anche se…. Facendo una ricerca su chi ha partecipato a mostre come UGA (United Graffiti Artists, la prima mostra di Graffiti nel 1972) o Arte di Frontiera (curata da Francesca Alinovi nel 1984), ritroviamo alcuni dei padri fondatori della disciplina stessa, dunque il rapporto con il sistema dell’arte ha origini molto lontane nel tempo. Nella mia esperienza, una sostanziosa fetta di nuovi muralisti e di Street Artist sono stati (o sono tutt’ora) writer. Per fare un altro esempio legato al mercato italiano, nella famosa e per alcuni vituperata Street Art Sweet Art, ideata da V. Sarbi e curata da A. Riva al PAC di Milano nel 2007, diversi fra quelli che hanno poi avuto un contratto con Telemarket venivano dal mondo del Writing. Questo per dire che il rifiuto del mercato non è una regola per tutti i writer, così come non lo è “l’odio” verso la cosiddetta Street Art. Il più delle volte, chi fa mostre, Street Art o Murales, deve semplicemente avere credibilità all’interno della scena per essere rispettato dai writer. Ci sono casi e situazioni specifiche in cui la Street Art si è mobilitata contro la gentrificazione, così come ci sono writer stimati che hanno partecipato ad iniziative tipo Wynwood, che da slum è diventato il Wynwood Walls, quartiere ‘in’ di Miami. Insomma, la realtà è molto più varia e sfumata di quanto non si cerchi di far credere.

L’equivoco per il quale Writing e Street Art si “detestano” nasce secondo me da diverse questioni: da una parte il fatto che la cosiddetta Street Art, usando codici estetici facilmente comprensibili alle “persone comuni”, sia socialmente più accettata ha fatto sì che sia stata messa in contrapposizione al Writing. Di conseguenza ha avuto maggior successo presso istituzioni e mercato, diventando un po’ l’emblema del selling out e godendo di una certa benevolenza da parte della legge. Ma va ribadito come dagli anni ’90 in poi, con la saturazione raggiunta dal Writing in America e in Europa, i maggiori esponenti della Street Art sono i writer stessi, che passano dalla firma ad un alter ego di altra natura e/o si mettono ad utilizzare strumenti differenti rispetto ai classici spray e marker.

Pietro, Exodus è qualcosa di più di una semplice ‘mostra’?

Per quanto consapevoli, tutti, che la fortissima connotazione politica e sociale delle opere in mostra avrebbe condizionato l’aspetto diciamo “artistico e commerciale”, abbiamo comunque voluto tentare. Ritengo che lo spazio espositivo permetta di raggiungere audience diverse rispetto alla strada, così come rispetto ai classici “eventi” su temi sociali, era quindi importante provarci anche per questo aspetto. Infine, sono convinto che realizzare un’installazione che mette a confronto i progetti del Collettivo FX (#Attentinonhaidocumenti e #Jindu) e di Pablo (#migrantesvalientes, #laluzdelabestia), avrebbe avuto perfettamente senso per chi segue questa nicchia di arte contemporanea. Poter sottolineare nuovamente come la documentazione di lavori realizzati senza permesso possa essere arte, mi ha spinto ulteriormente a tentare l’esperimento.

C’è infine da dire un’altra cosa, ovvero che da veri appassionati delle ‘controversie’, siamo andati ad autocontraddirci. Spesso capita, parlando col Collettivo FX, di lamentarci di come i media si focalizzino sulle opere dai contenuti sociali anziché sul tema che sollevano. È dunque ovvio che fare una mostra, che per definizione cerca di mettere in risalto il valore commerciale delle opere stesse, con lavori con questi contenuti, non dovrebbe passarci per la testa…. Ed invece ci piacerebbe molto veder riconosciuto anche in quell’ambito il lavoro degli artisti (e permettere alla galleria che investe di sostenersi). Comunque, consci di questo, abbiamo organizzato un importante incontro pubblico, Behind Exodus, (Venerdì 22 novembre 2019 dalle ore 18:30 alle 20:30 presso La Polveriera, Piazzale Monsignor Oscar Romero, 1/O, 42122 Reggio nell’Emilia) che vedrà come protagonisti me, Pablo Allison, Federico Vespignani (fotografo), Andrea Scazza (operatore sociale) e Simone Ferrarini, in modo da esplicitare inequivocabilmente che il momento espositivo è soprattutto un mezzo, non un fine.

Exodus, Esodo, come l’omonimo libro della Bibbia?

Abbiamo pensato parecchio ad un titolo che potesse collegare la ricerca di Pablo, che coi migranti di La Bestia (il treno merci che dal Messico raggiunge gli USA, il Canada e l’Alaska, utilizzato, a costo della vita, da migliaia di persone provenienti dal centro America per passare la frontiera) ha condiviso le esperienze più estreme, a quella del Collettivo FX, che deriva principalmente dagli incontri fatti con le persone che vivono all’interno delle ex Officine Reggiane. Modi diversi e storie lontane con denominatori comuni: il tema delle migrazioni, i treni merci, le fotografie, gli interventi ‘spontanei’. L’esodo biblico del popolo eletto poteva essere un riferimento interessante, ma non è stato quello che ci ha condotto a scegliere il titolo, piuttosto il senso più ampio che oggi la parola ha assunto. Credo però che inconsciamente tutti abbiamo pensato a persecuzioni e diaspora… e forse anche ad un popolo che, dopo la Shoah, ritorna nella “sua terra” e finisce per comportarsi al pari dei peggiori colonizzatori, come quelli ritratti dal collettivo FX sui container, che vanno a simboleggiare l’origine della piaga dello sfruttamento delle terre e dei popoli. Ancora contraddizioni. L’esodo di cui parla la mostra è principalmente dovuto al sistema economico che domina anche la politica. La religione, che può servire a confortare lo spirito di chi intraprende questi pericolosi viaggi, non è quasi mai il motore del fenomeno, casomai in certe situazioni è una scusa usata da questo o quel governo per fomentare odio e persecuzioni che sfociano poi in guerre, fughe di massa e giganteschi campi profughi, dai quali poi provengono tanti migranti che finiscono per essere impiegati come moderni schiavi, ad esempio nei nostri campi di pomodoro. Ma ripeto: ormai è chiaro a tutti che la religione è eventualmente un pretesto, le vere cause sono economiche, fin dai tempi delle conquiste delle Americhe. Sfruttare risorse della terra, creare consenso politico, gestire i fondi per l’accoglienza, armi da vendere, verdure da raccogliere sotto prezzo, schiavitù sessuale, manodopera per il mercato della droga… fa tutto parte di questo sistema che sulle migrazioni prospera e che quindi ha poco o nessun interesse ad eliminare i fattori che le provocano o a rendere burocraticamente semplice e sicura l’accoglienza nei paesi che potrebbero dare rifugio a chi cerca una esistenza degna.

Infine, è il lavoro di inclusione differenziale quello che produce tutti i ‘clandestini’ di cui abbiamo bisogno nelle nostre campagne, nei cantieri edili, nell’economia illegale: dobbiamo continuare a creare degli esseri diversamente umani, a questo servono le tappe obbligate di questo esodo come gli Hotspot, i centri di prima accoglienza, o i CPR, i Centri di Permanenza per i Rimpatri.

Quanto incide l’Arte urbana come mezzo di comunicazione politica?

In quanto intrinsecamente politica l’arte urbana ‘spontanea’ ha diversi aspetti positivi come vettore di messaggi fortemente connotati: se non chiedi permesso a nessuno, nessuno può dirti cosa dipingere o scrivere e cosa no, quindi anche i soggetti più scomodi possono essere realizzati “in faccia” a tantissima gente. Se il linguaggio è chiaro, molte di quelle persone saranno costrette a farci i conti; non è detto però che la cosa funzioni sempre come l’artista vorrebbe, ovviamente. In secondo luogo, sempre grazie al fatto di poter evitare la parte burocratica dei permessi, si possono sfruttare luoghi in posizioni molto visibili o le peculiarità di alcuni supporti, come furgoni, treni e container.

La tua curatela si caratterizza per l’attenzione rivolta più alla documentazione dell’opera che alla sua visione diretta.

Si e no. Come curatore cerco di lavorare sulla documentazione per sottolineare come nelle arti urbane spontanee la componente performativa, e quindi anche la reiterazione ossessiva dei gesti, siano fondamentali, spesso ben di più dell’’esito’ pittorico. Per moltissimi anni in ambito artistico-istituzionale si è badato soltanto all’estetica di lavori che, oltretutto, nella stragrande maggioranza erano realizzati su tela o carta. Il Writing è entrato nelle gallerie come pittura e questa forse, col senno di poi, è stata una declinazione non molto corretta. Inoltre, come conseguenza del fatto che le opere sulle quali lavoro sono effimere, la visione diretta è spesso impossibile, perciò diventa ancora più essenziale ricorrere alla documentazione per “differire” l’esperienza dell’originale, o meglio degli originali. Per non parlare dell’impossibilità quasi assoluta di poter assistere alle performance in prima persona, per ovvi motivi.

Internet soppianterà le gallerie?

Non so, per le cose che interessano me, la strada non verrà mai soppiantata come teatro privilegiato, e questo è l’aspetto più importante. Writing e Street Art devono sopravvivere ed evolvere lì.

Per quanto riguarda chi intende dialogare con il sistema dell’arte, io spero di no. La galleria, per quanto molti non ne siano consapevoli o possano avere avuto esperienze negative, investe sugli artisti, pubblica cataloghi, fa girare nomi ed opere alle fiere, e tanto altro. Forse oggi non è più assolutamente indispensabile passarci, ma se la galleria lavora bene, è una tutela sia per l’artista che per i collezionisti.

Istituzioni e Arte urbana, quali rischi si corrono?

I rischi si sono già corsi dato che è un rapporto iniziato quasi 50 anni fa ed è un onere che pesa su chi questo confronto lo cerca, per gli altri ci sono la strada, i treni, i libri e le fanzine di settore. Quello che succede nel rapporto di chi cerca un dialogo col sistema dell’arte può influire anche su chi ne vuole restare fuori, nel bene e nel male, ma, sinceramente, non so se qualcuno se ne accorga. La richiesta delle città di un numero sempre maggiore di murales ha portato a tanti “muri liberi”, delle specie di zoo, ed anche a campagne feroci di repressione. L’estetica del “degrado urbano” non è mai stata così mainstream, sfruttata per shooting di moda e grandi brand e non posso non pensare che tutto sommato questo non sia in qualche modo positivo anche per chi interviene in strada. Guardando la cosa dal punto di vista opposto: che pro ne avrebbero tutti se ci fosse solo e soltanto tolleranza zero?

Ultima domanda: Muro o vagone?

Come appassionato, forse direi vagone. Come curatore, invece, dipende dal messaggio che si vuole veicolare: se la durata del segno e l’interazione col tempo che passa sono parte integrante dell’opera, raramente un vagone può essere il supporto adatto; se al contrario l’opera ha bisogno di muoversi o di essere distrutta, allora sicuramente ancora vagone.

Foto di Collettivo Fx e Pablo Allison

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