Quello che succede da anni in Siria e come viene raccontato tutto ciò è l’ennesima prova del fatto che noi la violenza della guerra la guardiamo da lontano e rischiamo di banalizzarla e non comprenderla. Non solo in Europa ma anche nei Paesi coinvolti in questa guerra direttamente.

Senz’altro coloro che attuano la guerra la legittimano attraverso i loro scenari pubblici. La legittimazione ovviamente ha bisogno di una forte propaganda e cresce facilmente su un terreno fertile. La Turchia da questi due punti di vista è un grande laboratorio.

Legittimare la guerra

L’attuale governo di Ankara sostiene fortemente di portare avanti una causa sacra e santa; la “lotta contro il terrorismo”. Per comprendere meglio questa legittimazione bisognerebbe guardare alcune dinamiche politiche ma anche sociologiche dominanti all’interno della società turca. Altrimenti si rischia di cadere nella banalità della “guerra tra i Turchi e Curdi”.

Una “vera” lotta contro il terrorismo

Le formazioni armate come YPG, YPJ e SDF insieme al partito politico PYD che hanno lottato contro le barbarie dell’ISIS sono anche i difensori del confederalismo democratico. Si tratta di un progetto rivoluzionario ideato in parte dal filosofo socialista libertario Murray Bookchin ed elaborato da Abdullah Ocalan, leader storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), formazione armata definita come “organizzazione terroristica” dalla Repubblica di Turchia e non solo. Ocalan è stato arrestato nel 1999 e rinchiuso in un carcere speciale, in isolamento, in un’isola nel Mar Marmara e condannato all’ergastolo.

E’ impossibile negare il legame tra le forze armate e politiche attive nel Nord della Siria con il PKK. La Turchia, attraverso numerosi governi, in questi ultimi 40 anni circa ha sempre portato avanti la lotta armata contro il PKK. In quest’ottica è “comprensibile” la posizione del governo di Ankara nel voler entrare in Rojava e “pulire il confine dai terroristi”.

Un’identità nazionale dominante

I conti rimasti in sospeso nei confronti di tutti quelli che non sono turchi-musulmani-sunniti ed eterosessuali, insieme alla “lotta contro il terrorismo” mescolata con la storia del “curdo separatista” fanno sì che nella testa e nel cuore del cittadino ultra nazionalista l’invasione del territorio siriano sia legittima. Insomma la Turchia si presta molto facilmente ad ogni tipo di conflitto e scontro.

Una società militarista e “vittima”

Ovviamente a questo pensiero perverso e malato va aggiunto anche il tema del “complesso di superiorità” che non si riesce a superare da secoli. “I gloriosi discendenti degli Ottomani” si sentono obbligati e legittimati a ripristinare quel sentimento imperiale della conquista. Anche perché si tratta di un “potere” secolare che con la nascita della nuova Repubblica ha perso territori e strumenti economici e militari.

“Conquisteremo Afrin, con il permesso di Allah, e anche Manbij, Mosul e Gerusalemme” diceva il Prefetto della città di Kirsehir nel mese di maggio del 2018, durante lo scorso intervento militare di Ankara in Siria, sventolando la sua sciabola ottomana con un cappello tipico sempre ottomano. E’ uno dei tanti esempi di bellicismo con un forte tono di “vendetta”.

Una società-esercito

A questo punto conta molto il ruolo del sistema scolastico ed il profilo sociologico fortemente militarista e nazionalista della società civile. E’ importante sottolineare che l’insegnamento della storia è fortemente ottomano-centrico e legittima tutte le guerre del vecchio impero. Contano molto l’inno nazionale che si canta ogni mattina, “il giuramento della gioventù turca al Padre fondatore della Repubblica” e le lezioni di “sicurezza nazionale”. Sono solo alcuni elementi importanti per poter comprendere il pensiero dominante in Turchia.

Questo tema era stato messo in discussione da Hrant Dink, giornalista assassinato nel 2007, che parlava nei suoi articoli di come gli stessi cittadini armeni della Turchia siano stati sempre e solo visti come “una minaccia per la sicurezza nazionale” e della possibilità di convivenza pacifica con gli Armeni, che passerebbe attraverso lo scardinamento di questi meccanismi paranoici. Questi stessi meccanismi, durante la rivolta del Parco Gezi nel 2013, erano alla base della campagna schizofrenica portata avanti dai media mainstream, secondo i quali erano le “forze straniere che avevano ideato e acceso i tafferugli”

Sempre in quest’ottica vanno prese in considerazione le ultime dichiarazioni dell’attuale Presidente della Repubblica: “Tutto l’occidente ha preso la parte dei terroristi in Siria e ci hanno attaccato”.

La pornografia della guerra

Così diversi elementi della propaganda della guerra trovano successo nel trasmettere il loro messaggio con l’obiettivo di rafforzare il consenso popolare a favore delle politiche del governo centrale.

Un esempio di questi strumenti è ovviamente la televisione. “Milletin Duasi” è la “Preghiera della Nazione”, una canzone scritta e composta da Ibrahim Kalin, il portavoce del Presidente della Repubblica. Il video per questa canzone è stato realizzato dalla casa di produzione audiovisiva, Poll Production, in occasione dell’intervento militare in Siria nel 2018. La canzone è stata animata da diversi cantanti molto famosi, giovani e vecchi, di diversi generi musicali. Finora, su YouTube, circa 5 milioni di persone hanno visto questo video. Nel testo leggiamo delle frasi come: “Il popolo fa da scudo ai soldati in guerra che soccorrono gli oppressi. I soldati lottano con l’amore per la patria e rendono la vita insopportabile al nemico”. Attraverso questo tipo di linguaggio e produzione audiovisiva si spettacolarizza la guerra e la si rende gloriosa e forse anche piacevole oltre che giusta.

Anche il linguaggio dei servizi televisivi in Turchia è di un certo tipo durante la guerra. “I nostri gloriosi soldati sono in spedizione alla caccia dei terroristi. Le postazioni dei terroristi sono state colpite una per una. I terroristi escono dalle fogne e vengono presi dai soldati dell’esercito”. In un servizio da 3 minuti vengono aggiunti i rumori dei fucili nel sottofondo e dei carri che sparano, grandi scritte con il numero di “terroristi uccisi” vengono sovrapposte sulle immagini e l’avversario/il nemico viene definito come “traditore”. Così il popolo, nella sua casa calda, guarda a distanza, in tv, la guerra e l’uccisione del “brutto” come se fosse un videogioco.

La legittimazione e la spettacolarizzazione della guerra viene inculcata anche nelle teste degli studenti del sistema scolastico. In diverse città, in numerose scuole, gli allievi, nei cortili degli edifici scolastici fanno delle dimostrazioni a favore della guerra. Comporre la parola “Afrin”, disegnare con i corpi il “Ramoscello d’ulivo” oppure reggere delle gigantesche bandiere della Turchia. Non mancano ovviamente i canti collettivi dei brani ultranazionalisti che citano delle frasi come: “Ci siamo immersi nel sangue rosso per l’indipendenza. Abbiamo fatto capire al resto del mondo che il Turco è un soldato. Questo paese è turco e tutti si innamorano di questa nazione”.

La violenza della guerra

L’idea di una guerra “giusta, legittima e obbligatoria” rischia di far dimenticare alle popolazioni che comunque si tratta di un’azione violenta. Ma questo è un “dettaglio” che importa ben poco al governo centrale che vuole ottenere un capillare sostegno per le sue politiche. Quindi è necessario che ci sia un’orgasmo collettivo in tutta la nazione. Facendo così si può tranquillamente parlare del grande piacere che si prova nell’uccidere le persone.

A questo punto si ricorda un grande prodotto cinematografico, “Benny’s video” del regista Michael Haneke. Film prodotto nel 1992, fa parte di una trilogia chiamata “della glaciazione” e cerca di raccontare come ormai le guerre vengono trasmesse in diretta e le persone vengono sottoposte sistematicamente alle immagini della violenza in un modo senza precedenti. Quindi, secondo Haneke, il mondo è vicino, più che mai, alle immagini di violenza e questo fatto rischia di annullare la distanza che dovrebbe esserci tra gli individui e la violenza reale.

Dietro tutti questi strumenti e meccanismi si trova ovviamente lo scenario nascosto delle politiche del governo centrale, ossia quello di interiorizzare e normalizzare la violenza della guerra. A differenza dello scenario pubblico, quello nascosto si muove in grande silenzio, attraverso i media, il mondo del giornalismo ed il sistema scolastico.

Secondo il sociologo francese, Jean Baudrillard, le masse che non si pongono nessuna domanda sulla violenza che comprende la guerra guardano tutto come se assistessero ad uno spettacolo. Baudrillard fa un passo più avanti e sostiene che oggi se non ci fossero i media non ci potrebbero essere le guerre. Perché sono i media che diffondono “lo spettacolo della violenza”, rendendo la guerra una goduria di massa. In questo punto nasce il concetto della “pornografia della guerra”. Baudrillard sostiene che oggi la guerra sia l’alimento principale dei media e delle politiche repressive dei governi.

Rimanendo fedeli a questa lettura riusciamo a comprendere meglio perché le operazioni militari in Siria, volute dal governo di Ankara si chiamino “Ramoscello d’ulivo” e “Sorgente di pace”.

Sessismo della resistenza e occidentalizzazione della lotta

Non credo che sia fuori luogo parlare dell’eventuale lavoro di spettacolarizzazione della guerra anche quando si parla dell’altra parte del confine. In questi ultimi anni l’immagine della “giovane e bella ragazza curda” ha riempito le nostre bacheche su Facebook, le copertine delle riviste e qualche volta anche il podio delle sfilate di moda. Con i suoi occhi blu, capelli pettinati e viso truccato la “resistente curda” veniva presentata quasi sempre priva di velo.

Infatti nel 2016 le due importanti ufficiali delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), Jiyar Gol e Güney Yildiz hanno rilasciato un’intervista all’emittente britannica BBC parlando così: “Siamo rimaste deluse dalla rappresentazione sessista delle nostre compagne dai media occidentali”. Jiyar e Guney sottolineavano che facendo così i media distraevano il pubblico allontanando l’attenzione dalle informazioni legate all’ideologia della loro lotta.

A questa riflessione va aggiunto anche il caso di Ahed Tamimi, la ragazza palestinese che diventò famosa grazie a un video del 2017 in cui aggrediva due militari israeliani dopo aver saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito da un colpo alla testa ravvicinato durante una protesta. Condannata a 8 mesi di carcere e diventata il “simbolo della resistenza femminile palestinese”. Tuttavia in Palestina a resistere alle violenze non c’è soltanto Ahed. La storia della resistenza femminile palestinese è piena di nomi importanti come Naila Ayesh oppure Khalila Ghazal e Nimat Al Alami. Tuttavia una ragazza bianca, con un viso attraente e senza velo forse corrisponde ai canoni di bellezza occidentali e quindi forse risponde alle nostre “esigenze” ed “aspettative” da una donna resistente. Se fosse così ovviamente anche qui si sentirebbe una forte puzza di sessismo, di “omologazione” e “normalizzazione”.

Quindi, grazie ad una serie di meccanismi di propaganda in tutti questi casi di guerra, di lotta contro il terrorismo oppure di resistenza contro gli occupanti, rischiamo di staccarci dalla realtà e di essere soltanto gli spettatori della simulazione. Una simulazione priva di veri contenuti della realtà, che soddisfa le nostre necessità assetate di sangue, scontro, violenza e sessismo.