Certo, Hong Kong non è Pechino, è una “quasi nazione” autonoma. Quale ex colonia britannica gode di uno status diverso da quello della Cina continentale, così credevano almeno gli abitanti di Hong Kong fino a quando Pechino non ha iniziato a fare pressioni sui temi della libertà. Sì, perché il Comitato Centrale del partito è poco disposto ad accettare realtà che differiscono dal suo punto di vista totalitario e fuori dalla storia.

Le manifestazioni, come tutti sappiamo, sono esplose il 9 giugno nel rifiuto di un emendamento alla legge sulle estradizioni, volute appunto da Pechino, per limitare, dal punto di vista dei manifestanti, poco a poco l’autonomia di un popolo.

La protesta vede un’età media che va dai 18 ai 25, ma anche di altre fasce, come a voler stabilire che, oltre al tema della contestazione di una legge, esiste una voglia di ribellione nei confronti di un potere che, nel 2019, così com’è costituito al momento, non ha più ragione di esistere. Ecco, proprio questo è il punto, la possibilità che la protesta non rimanga confinata, ma si propaghi in tutta la Cina e tracci un’ideale continuazione dei moti di piazza Tienanmen, soffocati nel sangue dal governo del tempo.

Mi piace pensare che questi giovani nemmeno nati in quel 1989 possano unirsi a coloro che furono testimoni di quei fatti, in nome di una libertà e di una dignità che urlano forte la propria esistenza, che non è possibile reprimere e soffocare per sempre, perché, prima o poi verrà fuori con veemenza, carica di tutte le ingiustizie e violenze subite.

Il Comitato Centrale con le solite bugie colme di retorica ha già mobilitato i carri armati nelle regioni vicine, spiegando questo gesto come la normale prassi, mentre è chiaro che atti come questi non sono altro che la materializzazione della paura più grande: la ribellione di un popolo verso le stantie posizioni di un potere in putrefazione nelle linde e perfette divise comuniste del XX secolo.

Come potrà, nei giorni a venire, il Comitato Centrale porre un argine alla moltitudine di persone che non si vogliono tirare indietro? Cercherà di instaurare un dialogo? Deciderà di scendere a patti? E’ davvero molto difficile fare previsioni, ma una cosa è certa: non credo avrà la volontà di reprimere nel sangue la rivolta, come fece nel 1989 con i giovani di Pechino. Oggi la Cina ha troppo da perdere per ritrovarsi condannata di fronte al giudizio di un mondo che è diverso da quello dei giorni di Tienanmen. Anche se allora era presente la stampa internazionale che, in effetti, documentò i fatti di sangue che si susseguirono, non c’erano i Social, la possibilità di ognuno di documentare ogni passo della rivolta senza filtri alcuni. E’ certamente una differenza da non sottovalutare, come non lo è il fatto che il periodo storico è nettamente differente dagli anni della caduta del Muro di Berlino. Qui a cadere non è un muro, ma l’idea stessa di una struttura statale intera, di un modello di vita che le meccaniche del Terzo millennio iniziano a far scricchiolare, evidenziando la grande contraddizione del Liberalcomunismo, misto alla metodica violazione dei Diritti Umani.

Quello che il governo cinese non vuole accettare è che l’ora della sua caduta è scoccata; non sarà oggi e forse non domani, ma la macchina della decadenza è partita. La storia ce lo insegna: non è possibile tenere sotto una repressione costante un popolo perché quel popolo presto o tardi si organizzerà contro quel potere.

Oggi Pechino è divenuta una potenza economica mondiale, ma chi si sta occupando di come stanno le persone, al di là dei temi economici? E’ questo il punto: non può esistere P.I.L. di sorta senza che le persone che quel P.I.L. costruiscono non siano messe nelle condizioni migliori per poter esprimere se stesse. La libertà di espressione, di potersi, cioè, affermare senza causare dolore ad un altro, ma collaborando per il bene comune, credo sia l’unica via di salvezza, certamente non soltanto per la Cina. La crisi mondiale è esistenziale e, sebbene i molti vogliano ancora farci credere che un’economia solida possa rappresentare la felicità di una nazione, già vediamo oggi che questi stereotipi, residuato del XX secolo, non sembrano più essere validi.

Forse la rivolta di Hong Kong ci sta insegnando proprio questo e non è una caso che sia nata in una parte della Cina economicamente evoluta e stabile. Le persone sentono che la loro autonomia è minacciata da Pechino, sanno che la libertà di movimento rispetto al governo centrale può deteriorarsi e trasformare tutti loro in vittime della repressione continentale. Non è la ribellione nei confronti di una legge, è la ribellione nei confronti dell’idea stessa di dittatura ideologica che tenta di normalizzare le menti con l’arma della paura.

Guardiamo con rispetto e curiosità le genti di Hong Kong, perché in loro è presente quella speranza che, anche nel momento più buio del pensiero e dell’iniziativa del nostro tempo, può essere una luce, una motivazione a pronunciare un NO. No ad un nuovo modello che ci vuole tutti macchine biologiche buone per arricchire il potente di turno; no ad una vita priva di iniziativa ed entusiasmo; no all’incoerenza travestita da coerenza; no al compromesso morale che non ti fa vergognare più di niente e no, no, e ancora no, a un essere umano che non sente più la volontà della possibilità di scelta, perché stritolato nei meccanismi biechi di una società disumanizzante.

La scelta sarà tra umanizzazione o disumanizzazione costante e inarrestabile. Ad Hong Kong stanno scegliendo di esistere e questa scelta, al di là di come andranno le cose, rappresenta il senso di una vita intera.