Vitalina Varela – concorso internazionale

Regista: Pedro Costa, Portogallo – 2019 – 124’ – v.o. creolo, capoverdiano, portoghese

Il film del regista portoghese Pedro Costa non solo si è aggiudicato il Pardo d’oro, il principale premio attribuito dal festival, ma la protagonista Vitalina Varela, che dà il nome al film, è stata meritatamente premiata per la miglior interpretazione femminile.

La protagonista, una donna di 55 anni, che ha trascorso tutta la sua vita a Capo Verde, sbarca a Lisbona tre giorni dopo il funerale di suo marito. “Ho aspettato il biglietto aereo per venticinque anni”. Vitalina scende dall’aereo a piedi nudi in un’immagine dalla quale traspare una grande forza interiore, segnata da una profonda tristezza, ma anche una grande determinazione. Con un richiamo nemmeno tanto velato alla tragedia greca, è ancora sulla pista dell’aeroporto quando l’accoglie un coro di donne che la invitano a ripartire: il marito è morto, lei a Lisbona non ha nulla da fare, né da rivendicare.  Vitalina non retrocede, è decisa a restare a Lisbona, animata da un profondo desiderio di capire cosa abbia trattenuto in quella città suo marito fino al punto di non tornare da lei. Ma quanto l’attende è ben lontano da fornire una risposta alla sua domanda e anzi ciò che vede fa crescere in lei altri interrogativi destinati a restare senza risposta.

Sceglie di vivere in quella che era la casa del marito, uno spazio perennemente buio, collocato in uno slum nella periferia di Lisbona a Fontainahas (oggi non più esistente), spazi sotterranei, scavati nella roccia condivisi con immigrati e con persone che incarnano l’essenza della marginalità sociale. La sensazione è molto forte, il tono è monocorde, il protagonista è lo “scarto”: esseri umani scartati, cestinati dal consesso civile che si confondono con gli scarti materiali della grande città. Questa è l’immagine dentro la quale donne e uomini cercano comunque di costruire una propria quotidianità senza rinunciare alla vita, ma senza alcuna ipotesi né speranza, né di riscatto, né di rivincita.

Vitalina osserva, analizza gli angoli e le relazioni dentro le quali si è consumata l’esistenza del marito; tutto è desolazione e miseria, nulla spiega l’abbandono e il rifiuto di tornare da lei. Chi, cosa, gli ha sottratto il marito? Sullo sfondo la figura di un’altra donna, ma è un’immagine tenue, sfuggente, indefinita, che non si erge mai in una dimensione competitiva. Perfino le lapidi del cimitero non riportano alcun nome, come a significare la conclusione di un’esistenza trascorsa nel profondo anonimato. Anche la piccola chiesa collocata nello slum appare abbandonata a se stessa, in totale disfacimento; l’anziano prete, attraversato da rimorsi e da angosce, appare come il custode di un luogo di espiazione, ma privo della speranza di una resurrezione.

Il mondo esterno non compare mai durante tutto il film. L’unica luce proviene dai ricordi di quel breve periodo vissuto in gioventù a Capo Verde insieme al marito, impegnati nella costruzione di quella che avrebbe dovuto essere la loro casa e le cui immagini oggi sono le uniche a scaldare un’esistenza segnata dalla rassegnazione.

Un film girato con grande maestria e delicatezza, una successione di pittura e poesia, un’interpretazione perfetta dovuta alla profonda conoscenza della storia raccontata da parte della protagonista. Una pellicola che senza ricorrere ad alcuna denuncia clamorosa, né rumorosa, mostra un mondo che comunque, più o meno numeroso, esiste nel retro delle medaglie che magnificano le nostre città. Un mondo qui rappresentato come inconsapevole perfino delle ingiustizie patite, che non individua alcun colpevole della propria condizione, ma che forse anche per questo ci interroga nel profondo.

Mariam

La scomparsa improvvisa e senza spiegazione del marito e la solitudine, ma anche la tenacia di una donna nel costruirsi una differente esistenza, è il tema anche di MARIAM, film kazako di Sharipa Urazbayeva, inserito nella sezione Cineasti del presente.

Mariam deve garantire l’esistenza anche ai figli, mentre la sua vita resta sospesa: del marito non ha notizia, perde il lavoro quando i proprietari degli animali che erano loro affidati non la ritengono in grado di badare da sola alle bestie, lo Stato non le riconosce alcun supporto sociale ed economico in assenza di una dichiarazione di morte del marito. Nell’animo, ma anche nel corpo di Mariam, si svolge un conflitto di sentimenti, paure e speranze: il desiderio di riabbracciare il consorte, ma anche la consapevolezza che solo la certificazione della sua morte può riaprirle la vita non solo economicamente, ma anche nella dimensione privata. Una scelta che appartiene solo a lei, ma giocata su una condizione d’incertezza determinata da un comportamento altrui; una scelta che una volta compiuta modificherà anche l’espressione del suo volto e i movimenti del suo corpo.

Le dure condizioni dell’ambiente invernale che caratterizzano la pianura del Kazakistan accompagnano e inizialmente si fondono con le espressioni della protagonista; poi, nel proseguire della vicenda, la staticità del paesaggio fa da contrasto e dà maggiormente risalto all’evoluzione del personaggio.

Les enfants d’Isadora

Il Pardo per la migliore regia è andato a Damien Manivel, per Les enfants d’Isadora, una coproduzione franco-coreana. Manivel si è dedicato al cinema dopo una lunga carriera da ballerino e questo è il suo

primo film dedicato alla danza, anzi alla grande danzatrice statunitense Isadora Duncan vissuta tra il XIX e il XX secolo, una vita segnata dalla perdita dei suoi due figli in giovane età. Isadora Duncan ha creato l’assolo Mother nel quale una madre culla un bambino prima di lasciare che si compia il suo destino.

Il film narra la storia di tre donne, con condizioni di vita molto differenti fra loro, che riscoprono quella danza intensa, tenera ma anche straziante. Attraverso quest’esperienza artistica ognuna delle donne ripercorre la propria sofferenza, percepisce il valore forse anche consolatorio della composizione che suscita ricordi e sentimenti contrastanti di morte e di attaccamento alla vita.

Un film poetico, molto delicato, destinato a tutti, ma che sarà particolarmente apprezzato, ovviamente, dagli amanti della danza.