Di fronte alla marea dell’odio che continua a montare indisturbata nel discorso pubblico e nei social, in un circolo vizioso ogni giorno più privo di vergogna, le parole della Carta di Assisi ci dovrebbero scottare tra le dita. Aver visto per tempo – come Articolo 21, insieme a rappresentanze professionali, soggetti religiosi, voci sindacali e istituzionali – l’onda in arrivo finirebbe per essere un merito vuoto se quelle enunciazioni non le sapessimo far diventare azione culturale e civile continuativa.

L’assemblea del 15 luglio a Roma, alla Casa Internazionale delle Donne, ci ha dato un mandato chiaro e ci chiede di costruire un impegno non estemporaneo, di lungo periodo, ben più duraturo delle fiammate di indignazione che pure giustamente suscitano episodi quasi quotidiani (l’altro ieri le false notizie diffuse ad arte sul coinvolgimento di nordafricani nell’omicidio del giovane carabiniere, oggi lo scatto che ritrae bendato uno dei due statunitensi).

La proposta è quella di avviare un corso di formazione sulla Carta in tutte le Regioni, ovunque in accordo con l’Ordine dei giornalisti: un modulo, un ‘format’ che possa essere replicato nei diversi territori con voci differenti, definendo un impianto che tenga comunque fermi (chiunque sia a parlarne) gli elementi essenziali.

In vista delle definizione di questi tasselli, provo ad indicare tre elementi a mio avviso rilevanti nella costruzione dell’iniziativa: due di contenuto, uno riguardante gli interlocutori da coinvolgere.

Il primo aspetto di contenuto è quello richiamato dal punto 4 della Carta: “Impariamo il bene di dare i numeri giusti”. E’ vero, le nude cifre non bastano, e la comunicazione non può trascurare la necessità di saper provocare anche il coinvolgimento emotivo dei destinatari. Ma nel Paese in cui la percezione trionfa, e sul clamoroso divario tra il percepito e i dati di realtà (per esempio in materia di immigrazione e di sicurezza) si costruiscono operazioni politico-mediatiche gigantesche, è un dovere professionale ricordare che esistono anche i dati, non solo le emozioni più o meno artificiosamente alimentate.

Il secondo aspetto di contenuto è il bisogno di essere all’altezza della minaccia che dobbiamo fronteggiare. Intendo dire che contro i discorsi di odio non ci si può limitare a deprecare: la battaglia deve anche dotarsi di strumenti utili a comprendere meglio la perversa raffinatezza dei meccanismi di diffusione digitale della paura e di ‘coltivazione’ di followers spaventati e rabbiosi. La pagina che Repubblica ha dedicato tre giorni fa ai modi e ai tempi con cui in cui la vicenda di Bibbiano è diventata campagna ci indica una volta di più la necessità di acquisire competenze tecniche che permettano di sostanziare meglio la preoccupazione e l’allarme.

Ma c’è un altro punto che secondo me è decisivo e che riguarda la platea alla quale vogliamo rivolgerci. Fare corsi di formazione per giornalisti è certo rilevante, ma credo che mai come su questo tema sia importante parlare (e ascoltare) anche fuori. L’assuefazione ad un linguaggio via via più violento non è un problema solo o principalmente di una categoria. Mi piacerebbe perciò che nel ‘modulo’ del corso trovassero spazio anche le voci di chi del debordare dell’hate speech si occupa da una collocazione diversa: solo per fare qualche esempio, penso a insegnanti, studenti, forze dell’ordine, magistrati. La conquista di una consapevole cittadinanza digitale – fatta di diritti e di doveri – è un obiettivo tanto impegnativo quanto ineludibile. E non lo si raggiungerà camminando da soli.

Roberto Natale, coordinatore Comitato tecnico-scientifico di Articolo 21

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