Due giorni, due soli giorni, eppure pesano come macigni. Stiamo parlando dell’overshootday che ci dà la misura dello scarto esistente fra la quantità di natura disponibile e quella richiesta per soddisfare i nostri consumi. Nel 2018 cadde il 1° di agosto, quest’anno il 29 luglio. Due giorni di differenza che sembrano un’eternità perché è la tendenza che preoccupa. Siamo soliti tradurre il termine overshoot day come “giorno del sorpasso”, ma faremmo meglio a definirlo il giorno del salto nel vuoto perché registra la data in cui passiamo dal consumo basato sulla disponibilità di terra fertile al consumo basato sul niente. Segna la data in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. La data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva del pianeta e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto.

In gioco è la terra fertile che ci serve non solo per nutrirci, vestirci, dotarci di un alloggio, ma anche per andare in automobile. Il collegamento passa attraverso il tubo si scappamento: da lì esce l’anidride carbonica che normalmente è assorbita dalle piante. Ma solo entro il limite di 20 miliardi di tonnellate l’anno. Tutta quella in eccesso si accumula in atmosfera e si ritorce contro di noi. Purtroppo da decenni superiamo quel limite e lo vediamo. A livello scientifico lo dimostra l’aumento della temperatura terrestre che dal 1880 ad oggi è cresciuta mediamente di un grado centigrado. A livello pratico lo dimostra l’arrivo dei tifoni anche nell’area del Mediterraneo. Grandine grande come palle da golf a Pesaro, venti fortissimi in Grecia che hanno provocato sei morti: è successo solo alcune settimane fa e tutti dicono che dovremo abituarci. Ma intendiamoci sui termini o meglio sugli atteggiamenti. Se abituarsi volesse dire rassegnarsi ai nuovi fenomeni e limitarsi ad assumere misure difensive sarebbe molto pericoloso. Difronte al clima che cambia è d’obbligo innalzare barriere, migliorare le canalizzazioni, rafforzare gli edifici e prendere ogni altro provvedimento utile a proteggerci. E’ il principio della resilienza. Ma alla difesa dobbiamo associare la prevenzione che significa fare tutto il possibile per contrastare l’avanzata dei cambiamenti climatici. Ed è qui che ci ricolleghiamo al tema dell’overshoot day, perché ciò che serve per arrestare il sorpasso è esattamente ciò che serve per impedire alla temperatura terrestre di continuare a salire. La medicina comune si chiama riduzione dell’impronta di carbonio perché cambiamenti climatici e fenomeno del sorpasso originano dallo stesso male: l’eccesso di produzione di anidride carbonica. Pochi numeri illustrano la situazione. La terra dispone di 12 miliardi di ettari di terra fertile. I consumi dell’umanità ne richiedono 20, il 60% di essi per sbarazzarci dell’anidride carbonica. Uno scarto di 8 miliardi di ettari che paghiamo sotto forma di accumulo del pericoloso gas in atmosfera.

Di media ogni italiano ha un livello di consumi che richiede 4,4 ettari di terra fertile, due volte e mezzo il livello di sostenibilità. Metà di essa è richiesta per smaltire l’anidride carbonica. E per avere un’idea di quanta ne produciamo, immaginiamo se invece di rilasciarla in atmosfera dovessimo consegnarla alla nettezza urbana. Tutti i giorni ognuno di noi collezionerebbe 600 sacchi da 35 litri l’uno, lo ha calcolato il WWF della Svizzera, un paese con un’impronta ecologica simile alla nostra. Per stare in equilibrio col pianeta non dovremmo superare i 30 sacchi pro capite al giorno. Venti volte meno di quella che produciamo attualmente.

Fra le voci che contribuiscono maggiormente alla nostra impronta di carbonio ci sono i trasporti, il riscaldamento, le costruzioni, l’energia termoelettrica, un’alimentazione troppo ricca in proteine animali. Dunque è su questi ambiti che dovremmo intervenire con nuovi stili di vita ispirati a tre principi: meno, diverso, condiviso. Questo sistema pensa che la chiave di volta per ritrovare l’equilibrio col pianeta sia l’efficienza. Ma vale a poco ridurre la quantità di materia per singolo prodotto se poi si moltiplicano i beni consumati. Ormai è provato che l’efficienza funziona solo se associata alla sufficienza, ossia alla capacità di ritrovare il senso della misura. Ricordandoci che la produzione di anidride carbonica si annida dietro ogni prodotto. Talvolta i più insospettati sono i più insidiosi. Tipico il caso del cemento la cui produzione contribuisce al 4% di tutta l’anidride carbonica emessa a livello mondiale. Dobbiamo costruire meno e riparare di più, questo è una delle strade da rafforzare. Ma nel contempo dobbiamo imparare a diventare più padroni della nostra vita. Ogni volta che stiamo per comprare qualcosa chiediamoci se ne abbiamo davvero bisogno. Riflettendoci potremmo scoprire che non ci serve e che è meglio lasciarlo sullo scaffale del supermercato. Un piccolo gesto di sovranità che moltiplicato per milioni di individui può ridurre considerevolmente la nostra pressione sul pianeta. Specie se ci aggiungiamo scelte di qualità. Di attenzione, cioè, ai chilometri percorsi, agli imballaggi, al grado di riciclabilità, al tipo di energia e di tecnologia impiegata. Più locale meno globale, più riparabile meno usa e getta, più naturale meno industriale, più circolare meno lineare, ecco alcuni cambiamenti da introdurre per ritrovare equilibrio col pianeta e nel contempo lasciare agli impoveriti gli spazi per migliorare le proprie condizioni di vita. Perché se noi dobbiamo ridurre loro hanno bisogno di mangiare di più, vestirsi di più, studiare di più, curarsi di più. E potranno farlo solo se oltre a cambiare le regole dell’economia, noi opulenti accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Una strada, quella della riduzione, non difficile da intraprendere se alle scelte di testa sappiamo associare quelle di cuore. Oggi ci troviamo in un mare di guai perché abbiamo tenuto l’attenzione troppo rivolta sul nostro tornaconto individuale senza preoccuparci delle ricadute generali. Solo passando dall’io al noi potremo trovare la soluzione ai nostri problemi cominciando a praticare forme di consumo meno basate sull’individuale e più orientate al condiviso. Sul piano dei trasporti la soluzione non è l’auto privata che finisce per ingolfare le città, ma i mezzi collettivi. Una persona che viaggia in auto da sola emette 160 grammi di anidride carbonica per chilometro, una persona che viaggia in autobus solo 40. Questo è solo un esempio di come il collettivo ci permette di risolvere i nostri bisogni riducendo fortemente l’impatto sul pianeta. Ma anche migliorando la qualità della vita perché il passaggio dall’individuale al condiviso rafforza le relazioni. La solitudine è una dei mali più diffusi e più gravi dei nostri tempi, tornare a condividere servizi, spazi e strutture, oltre che all’ambiente fa bene anche allo spirito.

Pubblicato su Avvenire