Cooperazione allo sviluppo e cooperazione militare. L’impegno del nostro paese nelle aree dove si registra il maggior numero di persone in fuga verso l’Europa. Cosa dicono i numeri.

La cooperazione allo sviluppo verso i paesi africani, dai quali proviene la maggioranza dei migranti che attraversano il Mediterraneo, in termini di spesa è diminuita. I dati sono allarmanti. Secondo l’Ocse, nel 2018 si è registrato un calo degli aiuti del 2,7% e l’Italia è la maglia nera con un calo del 21% di risorse stanziate. Se si guarda all’Africa, il volume passa dai 5858,03 milioni di dollari nel 2017 ai 4900,1 milioni nel 2018, pari allo 0,23% del reddito nazionale lordo e in netto calo rispetto allo 0,30% del 2017.

Si tratta, sempre secondo l’Ocse, di una riduzione drastica del 21,3%. Dal 2012 si assiste a una riduzione – come scrive bene Vita.it – degli aiuti internazionali in settori cruciali. Meno 31,9% verso i paesi dell’Africa sub-sahariana: da 324,8 milioni di dollari nel 2017 a 221,3 del 2018.

Vi è inoltre un netto squilibrio tra le spese per la cooperazione militare e la cooperazione allo sviluppo. La proroga chiesta dal governo delle missioni militari all’estero per il 2019 ha un costo complessivo di oltre 1.100 milioni di euro.

Come scrive Luciano Bertozzi sulla rivista Nigrizia.it, rispetto al 2018 la novità “è rappresentata dalla missione bilaterale in Tunisia – anche per la lotta al terrorismo – con l’invio di 15 militari e una spesa di 2 milioni di euro”. Il maggior numero delle missioni militari all’estero sono “concentrate in Africa e le principali sono in Libia, Niger e Corno d’Africa”.

Aree strategiche della politica del governo italiano in chiave anti-migrazioni. Lo sbilanciamento è evidente: le spese per la cooperazione assommano a poco più di 100 milioni per interventi in Eritrea, Etiopia, Libia, Mali, Niger, Somalia, Sud Sudan e Sudan, con un rapporto di 10 a 1. In Niger, per esempio, la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 soldati, 160 mezzi terrestri e 5 aerei.

La politica del governo italiano verso l’Africa, nelle aree strategiche evidenziate dall’esecutivo, è dunque concentrata alla riduzione delle partenze, principalmente attraverso l’aiuto militare al controllo del territorio e in chiave anti terrorismo. Aiuto militare che spesso si concentra su paesi governati da regimi autoritari, non democratici e non in condizione di poter soddisfare i bisogni di base delle loro popolazioni.

Paesi molto spessi privi di un sistema di welfare per i quali sarebbe invece necessaria una più convinta azione di cooperazione, se è vero che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle aree lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, ma anche di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

Gli squilibri naturalmente sono anche altri. Il Coordinamento italiano delle Ong Internazionali (Cini) punta il dito sull’annunciato decreto sicurezza bis. In particolare, rispetto all’articolo 12. “Oltre alle preoccupanti misure – scrivono – relative al salvataggio in mare e sicurezza pubblica, la bozza del decreto propone, all’articolo 12, l’istituzione presso il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale di un Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio, con una dotazione di 2 milioni di euro, incrementabile fino a un massimo di 50 milioni nei prossimi anni. Il testo lega gli interventi di cooperazione italiani con i Paesi partner a una particolare collaborazione di questi ultimi nel settore dei rimpatri di soggetti irregolari”.

Secondo il Cini il fondo proposto “snatura le finalità ultime della cooperazione allo sviluppo, introducendo per la prima volta in modo formale un principio di condizionalità agli aiuti, che risponderebbero a interessi nazionali italiani più che a obiettivi di sviluppo. Come attori di solidarietà internazionale non possiamo che essere allarmati dai contenuti dell’articolo 12, che schiaccia il nesso tra migrazione e sviluppo su una dimensione securitaria”.

Non ci si chiede, per esempio, che fine faranno le persone rimpatriate, se verranno assistite, se godranno di progetti di rinserimento sociale e lavorativo o formativo. L’esempio dell’Eritrea è emblematico. Un paese che, pur essendo uscito dall’isolamento internazionale, non ha cambiato nulla della sua politica interna, motivo che spinge gli eritrei a fuggire.

L’Unione Europea, per esempio, ha concesso ad Asmara 20 milioni di euro per la manutenzione delle strade in cui saranno impiegati anche i giovani in servizio nazionale di leva, una pratica che in diversi documenti dell’Onu viene definita come “lavoro forzato” o anche “lavoro schiavo”.  Per la prima volta i fondi vengono dati direttamente allo stato governato da un dittatore.

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