“Voi cittadini in Europa avete un grande potere: quando entrate in un negozio, chiedete da dove proviene quel capo d’abbigliamento che avete deciso di acquistare, chi lo ha prodotto, e assicuratevi che parte del denaro che spenderete vada ai lavoratori. Se quell’oggetto non e’ stato prodotto in modo sostenibile, protestate”.

A lanciare l’appello è Kalpona Akter, fodatrice e presidente del Bangladesh Centre for Worker Solidarity (Bcws), un’organizzazione che si batte per i diritti dei quattro milioni di lavoratori delle fabbriche tessili del Paese asiatico che rivendono filati o prodotti finiti ai grandi
marchi internazionali.

Kalpona ha iniziato a lavorare in fabbrica a 12 anni, per 16 ore al giorno. A volte veniva anche picchiata, racconta oggi all’agenzia ‘Dire’. “Mia madre mi diceva sempre: se accadono delle ingiustizie, c’è sempre la possibilità che qualcuno si alzi in piedi e denunci. Quindi mi sono detta: ‘Perché non essere io quel qualcuno?'”.

Così la donna ha deciso di fondare un sindacato interno alla sua fabbrica, e per questo è stata subito licenziata. “Non avrebbero dovuto farlo” ha raccontato qualche anno dopo, spiegando che quel licenziamento l’ha condotta poi a creare il Bcws che, collaborando con entitaà sorelle, rivendica i diritti dei lavoratori a livello globale. Alla ‘Dire’ Akter ha spiegato quali sono le condizioni in Bangladesh oggi: “Il salario minimo è ancora di 84 dollari, la metà di quanto rivendicato. Questo rende la sopravvivenza difficile soprattutto per le donne con
figli. I luoghi di lavoro spesso non sono a norma. I lavoratori poi non sono liberi di creare sindacati o di iscriversi e partecipare attivamente. Chi ci prova, rischia pressioni, abusi, persino il carcere”. Akter stessa ha trascorso un periodo in prigione per il suo lavoro.(

Secondo esportatore nel settore dell’abbigliamento, il Bangladesh ha sviluppato di recente leggi che dovrebbero migliorare la condizione dei lavoratori. Akter denuncia però che tali norme “non vengono rispettate a causa della corruzione e degli stretti legami tra i proprietari delle fabbriche e il governo. In Parlamento, un terzo dei deputati proviene dal mondo dell’imprenditoria”.

Tra i progressi compiuti rientra l’adesione del Bangladesh all’Accordo sugli incendi e la sicurezza degli edifici siglato all’indomani del crollo del Rana Plaza, una fabbrica multipiano in cui morirono circa 1.100 persone. Fu proprio grazie a forti pressioni internazionali che tale Accordo ha visto la luce, consentendo di compiere ispezioni e monitoraggio secondo standard elevati e indipendenti.

La Corte suprema di Dhaka nel 2018 ha però emesso un ordine restrittivo, paralizzando l’attuazione dell’Accordo. Proprio oggi era attesa la decisione sul futuro di tale strumento, ma è stata nuovamente posticipata, al 19 maggio. “L’incertezza sul futuro dell’Accordo unita alla feroce repressione delle recenti proteste salariali rischiano di vanificare tutti gli sforzi compiuti negli ultimi cinque anni e mezzo” ha denunciato sempre alla ‘Dire’ Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna abiti puliti, che nel fine settimana è stata ospite insieme ad Akter al Festival del commercio equo e dell’economia solidale promosso da Terra Equa a Bologna.

“Per prevenire disastri come quello del Rana Plaza – aggiunge Lucchetti – occorrono fabbriche adeguatamente ispezionate. Il governo del Bangladesh ha il dovere di proteggere i suoi cittadini, così come i marchi internazionali hanno la responsabilità di garantire ai consumatori che i loro prodottiprov engono da fabbriche sicure, sottoscrivendo e assicurando il mantenimento dell’Accordo”.