Quella che sembrava una separazione consensuale, tra il movimento politico Potere al Popolo e il partito della Rifondazione Comunista, rischia di avere degli strascichi legali.

«È chiaro che l’esperienza Potere al Popolo va considerata finita, e non sarebbe giusto che alcuna delle sue componenti fondatrici continuasse ad utilizzarne il nome ed il simbolo, come se nulla fosse avvenuto». Lo scrive, lo scorso 22 novembre, Maurizio Acerbo, in una lettera raccomandata inviata alla Gentile Signora Viola Carofalo, all’Egregio Sig. Giorgio Cremaschi e all’Egregio Sig. Francesco Antonini (questi i termini usati dal segretario nazionale di Rifondazione).

Acerbo esplicitamente accenna a «strumenti giudiziari di tutela» in caso che la sua proposta non venisse accolta.

L’accusa di Rifondazione

Il Leader comunista contesta, nel dettaglio, tanto il nuovo Statuto votato lo scorso 6-9 ottobre – da 4.041 aderenti a PaP – quanto la stessa adesione al movimento di tali aderenti poiché, a sentire Maurizio Acerbo «in via formale, nessun nuovo socio è stato approvato dall’assemblea».

Dichiarazioni che non trovano peraltro il paio con quelle della Direzione Nazionale del 13 ottobre di Rifondazione nel cui verbale ci si lamenta che per la modifica dello Statuto di Potere al Popolo ha votato solo «una minoranza degli aventi diritto al voto». Minoranza o meno, la matematica non dovrebbe essere un’opinione, la questione diventa, ora, se erano “aventi diritto” o meno.

La lettera è stata diffusa venerdì scorso, con la sua pubblicazione sul sito web di Potere a Popolo.

La risposta di Potere a Popolo

«È davvero singolare che si scelga (legittimamente) di separarsi da una forza di cui si é fatto parte fino ai massimi livelli, e poi (assurdamente) si pretenda che quella forza da cui ci si separa non esista più», replicano Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi.

«Tu ora minacci di portarci in tribunale se non facciamo, in quattro più il tesoriere, il Potere al Popolo che vuoi tu. Bene ti rispondiamo subito: vacci in tribunale. Sai, noi siamo spesso coinvolti nelle aule di giustizia per lotte sociali e politiche, andarci anche per la denuncia aziendalista di un segretario di partito ci preoccupa solo per il ridicolo, senza precedenti nel nostro mondo. Però se di questo ridicolo vuoi proprio coprirti, noi non siamo in grado di impedirtelo».

Spiace leggere – viene da commentare a chi scrive – di un Partito, Rifondazione Comunista, che alla «lotta per la trasformazione della società e la difesa delle condizioni di vita delle classi lavoratrici» preferisce quella giudiziarie per cancellare un’esperienza e un simbolo politico che, dopo tutto, non è il proprio. Spiace leggere di una Sinistra che, in Italia, non vuole esistere proprio più.