“Volevamo capire perché non arrivassero notizie sulla ‘Balkan Route‘, e lo abbiamo capito: non c’è la volontà. Perché abbiamo chiamato il nostro documentario ‘(Non)persone’? Perché quei migranti vengono deumanizzati dalle norme europee e nazionali. Mentre noi abbiamo dei diritti, loro no, ed è assurdo”. Chiara Ercolani alla ‘Dire’ racconta ‘(Non)persone’, il documentario che lei e tre colleghe del corso in Mass Media e politica dell’Università di Bologna hanno scelto come tesi di laurea, raccontando cosa accade ai migranti che cercano di raggiungere l’Unione Europea attraverso i Balcani.

Con Alessandra Mancini, Valentina Nardo e Giulia Monaco, racconta Ercolani, “siamo partite nel marzo del 2017 nel momento in cui la Balkan Route veniva considerata chiusa, per effetto dell’Accordo sui migranti appena siglato tra Unione Europea e Turchia”. L’intesa mira a trattenere in Turchia quelle persone che invece del Mediterraneo centrale scelgono di passare attraverso Grecia, Macedonia, Albania, Serbia, Montenegro, Slovacchia e Bosnia, per raggiungere infine l’area Schengen.

La rotta era considerata, chiusa, ma in realtà centinaia di persone continuavano ad attraversarla“, sottolinea Ercolani, che con le compagne ha iniziato “un viaggio in treno al contrario” di qualche settimana, da Bologna a Zagabria, poi Belgrado, Tabanovce e Gevgeljia (in Macedonia), quindi in Germania. Il tutto zaino in spalla e Reflex al collo: “Non ci aspettavamo di trovare ciò che poi abbiamo visto“.

A colpire le quattro ragazze – tra i 23 e i 26 anni al momento della partenza – è stato soprattutto “il campo profughi informale di Belgrado, accanto alla stazione centrale”. Lì vivevano “centinaia di persone, in maggioranza siriani, afghani e pachistani, tra i 14 e i 30 anni, abbandonati a se stessi. L’inverno le temperature sono estremamente rigide. Solo Medici senza frontiere aveva allestito una piccola tenda per dare assistenza ai casi più gravi, mentre volontari arrivati con camion e camper distribuivano i pasti”. Un aiuto ridotto ai minimi termini, dal momento che ogni azione “era considerata illegale”.

Le laureate descrivono il campo, “in condizioni igieniche terribili. Ci abbiamo messo un po’ a riprenderci”, ma ” eravamo sempre circondate dalla solidarietà dei migranti”. Avete mai avuto paura? “Mai, sebbene potesse accadere di tutto” risponde la regista. “Ci aiutavano e poi erano felici di poterci raccontare cosa stava accadendo”. I resoconti parlano di frontiere militarizzate, con la polizia che picchia i migranti, “o gli confisca il cellulare, i vestiti e le scarpe per poi abbandonarli nel bosco, con la neve”.

Che alternative hanno questi giovani? “Nessuna” dice Ercolani. “Non possono tornare indietro, perché nei loro paesi d’origine rischiano la morte“. Ma proseguire è quasi impossibile, “eppure non abbandonano l’idea, perché vogliono vivere una nuova vita”. La regista continua: “Molti di questi giovani prima di partire ci hanno raccontato di condurre una vita simile alla nostra. Io non lascerei mai casa mia, se non fossi costretta. Penso che la mia generazione possa capirlo più che mai”.

Eppure le registe osservano un forte razzismo nella società. “Questo accade perché nei Balcani la gente vuole lasciarsi alle spalle gli anni della guerra e avvicinarsi allo stile degli europei” dice Ercolani. “L’afflusso dei migranti è vissuto come una tragedia, una sorta di ‘colpa’ che li allontana dal raggiungere quel modello”. A circa otto mesi da quel viaggio, il documentario è stato presentato al Film Festival Documentario di Forlì e a Cinema di Frontiera a Marzamemi e a fine novembre è stato selezionato per il Foggia Film Festival.

“Abbiamo ricevuto molti feedback positivi” sottolinea Ercolani. “Varie persone hanno ammesso di non saperne nulla e questo ci sta rendendo felici perché il nostro scopo era sensibilizzare sul tema“. Nel mondo delle istituzioni, accusa però la regista, “nessuno ha dato la giusta attenzione al nostro progetto e questo ci amareggia”. D’altronde, conclude Ercolani, “se l’Europa ha stipulato quell’accordo con la Turchia è probabile che non ci sia terreno fertile per discutere di questi temi”.

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