Abbiamo già perso. Indipendentemente dal risultato. Abbiamo già perso. Anche se vinciamo, abbiamo perso. In tutti i sensi. Il risultato finale ormai non importa più. “Non lo possiamo negare: Bolsonaro ha rivelato il vero volto del Paese. Non siamo pacifici, non possediamo alcuna virtù repubblicana. Siamo disinformati, razzisti, machisti, igienisti, segregazionisti, omofobici e con un raziocinio critico quasi nullo”, sono le parole di un importante procuratore federale. E io vado oltre. i numeri emersi nel primo turno elettorale parlano chiaro e mi dicono in faccia che cinquanta milioni di persone sono pronte ad uccidermi, a torturarmi, a farmi sparire per sempre. Cinquanta milioni di persone. Che la parole siano pietre, lo sappiamo da sempre. Nel discorso immediatamente successivo la divulgazione dei dati ufficiali, tra le frasi già conosciute, il candidato ne dice una che riporto tale e quale: “Nós vamos acabar com todo a forma de ativismo”. Acabar, significa finire, terminare. Prima di un lite si minaccia l’avversario dicendo Eu acabo con você. Ti faccio fuori. Ti distruggo. “Noi distruggeremo tutte le forme di attivismo”. Cinquanta milioni di persone vogliono distruggermi. Hanno dato la loro fiducia, il loro appoggio a chi ha sempre voluto distruggermi. Non importa che sia o no una metafora. Le parole sono pietre. E quando apri i portoni all’orrore, l’orrore entra davvero. La fragilità della convivenza democratica ha permesso l’ascensione di un simile personaggio grazie alla connivenza di tutti quelli che avevano il potere di intervenire e non lo hanno fatto. Quando, in piena assemblea parlamentare si invoca uno dei più feroci torturatori del regime militare e le autorità stanno a guardare, è facile dalle parole passare ai fatti. Fu proprio così, durante la sessione solenne che avrebbe deciso per l’impeachement della presidente Dilma, il voto del futuro candidato fu dedicato alla memoria del colonnello Ustra, la mano nera del regime militare.

 

Come un film di Tarantino. Una svastica incisa sul corpo di una ragazza. Indossava una maglietta con la scritta ELE NÃO, Lui no, lo slogan del movimento trasversale che ha riunito migliaia di persone nelle piazze di mezzo mondo. Indossava la maglietta. Hanno deciso di punirla. Mentre in due la malmenavano a calci e pugni, un terzo con un taglierino le incideva sulla pancia una svastica. La ragazza si rivolge alla polizia ventiquattro ore dopo. Il commissario responsabile rivela alla stampa: “ho visto il disegno che le hanno fatto sulla pancia. È un simbolo buddista, un simbolo di armonia, di amore, di pace e fraternità. Se cerchi su google vedrai la conferma a ciò che dico, quello è un simbolo buddista. Gli elementi che possiedo son questi: una ragazza aggredita con la pancia graffiata da un disegno di amore e fraternità”. Alla domanda sul perché qualcuno aggredirebbe una ragazza per inciderle un simbolo di pace con un taglierino sulla pelle della pancia, il commissario risponde: “Questo bisogna chiederlo a chi l’ha fatto, non sono un indovino io, non posso certo saperlo”. Come un film di Tarantino? No, peggio, molto peggio.

 

Vlademir Safalte, filosofo, noto professore universitario parla agli studenti: andiamo lá nelle periferie, nelle associazioni di quartiere, casa per casa, a parlare con la gente, parliamo, raccontiamo che saranno loro il primo bersaglio della repressione: quella economica attraverso i tagli alla spesa pubblica e le privatizzazioni selvagge; e in seguito la repressione politica. Spieghiamo che la loro legittima voglia di sicurezza e la “carta bianca per uccidere” promessa alla polizia dal candidato, li trasformerà nel primo e più facile bersaglio. Vamos, vamos. Molti di noi sono caduti in una triste malinconia, ma vorrei dire che prima o poi questa lotta avrebbe dovuto accadere, non era possibile che il nostro paese dovesse attendere ulteriormente. È una lotta che si aspettava da molto tempo. Non sarebbe possibile costruire una società più giusta se noi non ci confrontassimo con questi gruppi, con questi discorsi, se noi non ci confrontassimo con queste persone. La Storia ha scelto noi in questo momento per iniziare questa lotta. Molti, in un modo o nell’altro, hanno già combattuto, ma mai in una situazione così drammatica, con questa forza. Per una contingenza storica adesso tocca a noi, non c’è più nessuno. Se perdiamo, saranno le prossime generazioni a perdere, lo sappiamo, lo sentiamo, questo non è una scaramuccia qualsiasi, sappiamo qual’è la gravità della situazione e quello che succederà, non possiamo cedere, non possiamo cedere”.

 

Non possiamo cedere, è vero, lasciarsi cullare dalla malinconia è il peccato più grave. Ma abbiamo già perso. Anche nel caso di vittoria, abbiamo già perso. Indipendentemente dal risultato, abbiamo già perso. La disgregazione del tessuto sociale è cominciata da parecchio. Ci sono riusciti, ci hanno masticato piano piano dall’interno delle nostre viscere. Il fascismo non vince quando si elegge un dittatore. Il fascismo vince prima, molto prima, vince nel seno delle relazioni sociali corrotte, vince nelle parola e poi nei fatti, direttamente sulla pelle gente. Direttamente, come nel caso della povera ragazza tatuata a forza, sul corpo, sulla carne. E siccome sappiamo che non c’è mai limite al peggio, il peggio lo aspettiamo.

Rileggo le parole della presidente deposta nel golpe di due anni fa: La lotta non ha un momento per terminare, la lotta dura tutta la vita. Voglio crederci. Ci credo.