C’è chi dice che siamo nel Kali Yuga, l’era della grande decadenza dello spirito, secondo le Sacre Scritture Induiste, l’epoca in cui è normale non tenere conto della parola data, dove perfino la parola non ha più alcun valore. Se, da una parte, questo potrebbe spiegare come figure di grande significato per l’evoluzione umana siano state uccise dai propri seguaci o dai popoli ignoranti, incapaci di comprendere la loro parola, dall’altra, non ci chiarisce perché le parole continuino a influenzare il pensiero e, quindi, l’azione delle persone e perfino dei grandi insiemi.

Non mi rassegno alla morte della forza delle parole. E allora osservo le cose curiose che accadono in questo stralcio di inizio millennio.

Ultimamente mi sono soffermata a riflettere sulla bontà e sulla crudeltà.

Quando ero piccola esistevano azioni considerate buone e altre cattive. Quelle buone, generalmente, avevano a che vedere con l’aiutare gli altri o fare qualcosa di positivo per la comunità umana e per l’ambiente, o servivano a cercare l’evoluzione personale e sociale, l’apertura degli uni verso gli altri, l’unione fra le persone e l’abbattimento dei pregiudizi. Quelle cattive invece, avevano come denominatore comune l’egoismo, cioè tendenzialmente erano azioni che servivano a dare beneficio a uno o a un limitato gruppo, a scapito e danno della maggioranza o dell’ambiente comune, erano atti di una certa potenza distruttiva e per lo più generavano divisione fra le persone e conflitti di ogni genere.

Ora, io non professo alcuna religione, ma questi criteri ce li ritroviamo un po’ in tutte le culture e in tutte le credenze, non solo nel giardino del Vaticano, nel quale siamo nati noi italiani.

Poi, ovviamente, c’erano le azioni che sembravano buone ma erano false, quelle che erano mosse, cioè, dall’ipocrisia, dall’intenzione di essere ben visti, di acquisire prestigio o qualche tipo di guadagno. In questo caso, qualcosa del comportamento definito cattivo, il per-sé, entrava di contrabbando nella condotta cosiderata buona fino a quel momento. A un certo punto quelle azioni, invece che “ipocrite”, hanno cominciato a chiamarsi “buoniste”.

Nel frattempo la crudeltà ha cominciato a diventare di moda. Mi spiego: il linguaggio pubblico, a un certo momento, negli ultimi decenni, ha iniziato a perdere i veli del formalismo e a divenire più “crudo”. Questa “crudezza” delle descrizioni e delle affermazioni è stata da alcuni apprezzata e considerata come un avvicinamento delle istituzioni al popolo. Il “parla come magni!” si è diffuso e si è banalizzato. E così, oltre ad avere rappresentato una semplificazione del linguaggio, si è portato dietro anche altre cosette meno simpatiche, come la volgarità e il cinismo, che hanno avvicinato la “crudeltà” a quella “crudezza”, vista come un passo di necessario realismo.

Non so come, e mi chiedo ancora dove ero col cervello quando ciò è accaduto, ma a un certo punto anche le cose buone hanno cominciato a essere chiamate “buoniste” e, con la stessa forza, le condotte chiaramente crudeli sono state difese come se fossero evolutive o, quantomeno, le più adeguate per il bene comune (comune a una parte del tutto, non a tutti, ovviamente). E ci siamo ritrovati a scontrarci fra buonisti e realisti. Non fra “buonisti” e “cattivisti”, che avrebbe avuto un pochino più di coerenza semantica, per lo meno.

Il problema serio che sottende tutto ciò è il crollo dell’etica e, dato che finora non siamo stati in grado di darle profondità, almeno a livello di collettività umana, può darsi che anche questo passo risponda a una necessità storica. Ma allora cosa è buono e cosa è cattivo?

Vorrei umilmente suggerire di costruire l’etica del futuro in base a due semplici criteri di valutazione delle proprie azioni:

quella cosa che ho fatto che sensazione mi ha lasciato? di coerenza con me stessa, di unità, di forza? Anche a ricordarla dopo del tempo, continua a darmi la stessa sensazione? Vorrei ripeterla?

Quella cosa che ho fatto, vorrei davvero tanto che gli altri la facessero anche a me?

Ecco, se la risposta alle domande è sempre: SI, e se volessimo ricominciare a dare un valore alle parole e chiamare le cose con un nome sensato, questa potrebbe essere, più o meno, la “bontà”.

Per la crudeltà, basta leggere il giornale.