“Vento d’estate, io vado al mare voi che fate?” canta Max Gazzè. In effetti, che sia tempo di vacanze o di evasioni, ci sono luoghi che sempre evocano idilliaci scenari di paesaggi incontaminati e spiagge dorate, acque cristalline e … orti. Siamo alle Fiji, per l’immaginario collettivo una sorta di paradiso accessibile a pochi, da qualche parte nel Pacifico del Sud… e l’aver nominato la parola “orto” non è un gioco a “trova l’intruso”.

In molte delle notizie degli ultimi anni, anche tra quelle di cui vi racconta Unimondo, il riferimento al “cambiamento climatico” impera: è inflazionato? Purtroppo, no. Trascurando la minoranza che li nega, millantando complotti internazionali per ostacolare lo sviluppo economico di una minoranza peraltro indubbiamente avida e antropocentrica, i cambiamenti climatici ci parlano troppo spesso, dati alla mano, di un mondo in pericolo. E alle isole Fiji gli effetti sono innegabili, oltre che evidenti: gli insediamenti costieri sono minacciati dell’innalzamento del livello del mare. A questo si aggiungono altri ordini di problematiche, come ad esempio un mercato dominato da cibo che sempre meno ha a che fare con la dieta tradizionale e un livello di salute della popolazione locale che tende al ribasso. Fra le principali cause di questi peggioramenti l’adozione di pratiche alimentari scorrette, che rinunciano all’utilizzo di prodotti freschi e locali a favore di fast food e cibi preconfezionati, diffusi anche nelle zone rurali. Le soluzioni proposte dalla politica sollevano più d’una perplessità: lo spostamento dei nuclei abitati dalle coste all’entroterra, per esempio, è evidentemente un’azione riparatoria di un’ingenuità quasi comica per temporaneità degli effetti e per poca lungimiranza.

L’impotenza è un sentimento che sguscia tra le crepe della fiducia e può farsi strada diffondendo apatia, disinteresse e uno sconforto gravido di pericolose conseguenze. L’Oceano sta molto rapidamente inghiottendo i villaggi, erodendo velocemente le coste. Sono anticipazioni di un futuro assolutamente non desiderabile, che chiamano a un rigore di proposte e azioni volte invece a contenere, quando non si possano ostacolare, gli effetti dei mutamenti in atto, partendo da quelle cause spesso in carico alla responsabilità dell’uomo: dalle politiche minerarie irresponsabili alle agricolture intensive annaffiate di pesticidi.

Data la situazione, quali alternative sostenibili sono immaginabili e quindi anche praticabili? È la domanda che si sono posti gli abitanti di queste isole, motivati dalla difesa di uno spazio di vita e di prospettive, consapevoli di abitare in un luogo che assomiglia molto a un paradiso e convinti di voler evitare a ogni costo che diventi un inferno. Buone pratiche dal basso le chiamano, motivate e coordinate da Leo Nainoka, un leader la cui storia ce la racconta qui Carlo Petrini: “Stiamo lavorando per educare la gente ad alternative sostenibili”, dice Leo a Petrini. “La buona notizia è che stiamo collaborando con il Dipartimento per la Nutrizione per insegnare nei villaggi l’importanza di mangiare la frutta locale, le verdure e le radici e per enfatizzare i valori nutrizionali di questi cibi salutari”. Certo, non si tratta solo di mangiare sano e locale: si tratta anche di arginare le deforestazioni richieste dall’industria del legno, che negli ultimi anni ha aumentato il livello di preoccupazione nei confronti della tutela del territorio e degli equilibri di queste isole. Questo lo si fa, appunto, promuovendo la nascita e la diffusione di orti locali biologici e comunitari, che attivano reti a difesa del territorio e della cultura locale, includendo anche le tradizioni alimentari, ma non solo: Seep (Social empowerment and education program) è un progetto educativo che racconta di conoscenze condivise, di consapevolezza e responsabilità, per non arrendersi e cercare soluzioni fuori dagli schemi di decisioni globalizzate ed effetti che asfaltano l’identità di territori e comunità. E se, come dice Leo, “il tempo ci darà risposte”, qui si stanno dando da fare in fretta, sapendo che di tempo non ne resta molto e sapendo anche che quello che rimane va investito al meglio per difendere non le ricchezze di ciascuno, ma quelle di tutti.

L’articolo originale può essere letto qui