“Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice […] noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”

-Filippo Turati, Discorso alla Camera dei Deputati del 18 marzo 1904

La società moderna è sempre più ostaggio della paura e di chi le dà voce: l’esigenza di sicurezza è, ormai, il leitmotiv di qualsiasi propaganda politica e sociale. Le problematiche sociologiche odierne hanno, infatti, un preciso riflesso persino sul nostro vocabolario nel quale, a margine della “polvere”, compaiono, invero già da tempo, termini come “populismo, populista”. “Che ne è del diritto nella società della paura?”, verrebbe da chiedersi.

Non molti anni fa il Fiandaca già parlava di populismo penale e di populismo giudiziario, indicando con il primo “l’accentuata strumentalizzazione politica del diritto penale, delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e allarmi1 e ritendo sussistente il secondo “tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale2”. Entrambe le definizioni si potrebbero, forse, riassumere nella nozione di “diritto penalpopolare”, intendendosi con tale neologismo un diritto frutto delle paure sociali che pretende di farsi, sempre e comunque, portatore del proprio “volksgeist” di riferimento: un diritto che identifica, in sostanza, i nemici dai quali deve difendersi al fine di sopravvivere. Un diritto di tal sorta, indubbiamente, presenta dei tratti di istintualità che lo portano ad agire irrazionalmente: si pensi, tra le altre cose, all’idea del carcere come panacea di ogni male, come istituzione in grado di arginare qualsiasi male della società a costo zero. “La civiltà del carcere baricentrico” è certamente un diretto precipitato del diritto penalpopolare.

Questa idea di diritto si avvantaggia, oltretutto, di Giudici che si fanno interpreti delle presunte istanze di sicurezza della società e che non tardano ad emettere sentenze votate all’altare della paura sociale: per esistere il diritto penalpopolare necessita della paura dei consociati, di Giudici “popolari”, di un potere legislativo in cerca di consensi e di “nemici”. L’immagine di giustizia che proietta questo diritto non assomiglia certamente ad una dea bendata: quanto più la si mette a fuoco tanto più si intravede un essere umano (“troppo umano”?) dotato di istinti e di esigenze primitive, ben lungi dall’ideal-tipo razionalistico. La paura, forza motrice del diritto penalpopolare, chiaramente, deve essere costantemente alimentata dal mantice delle emozioni che è, a sua volta, azionato dalla creazione di “nemici” della collettività.

I nemici del diritto penalpopolare assomigliano, in un certo senso, agli homines sacri del diritto romano: At homo sacer is est, quem popolus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur; nam lege tribunicia prima cavetur si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit, occiderit, parricida ne sit. Ex qui quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet 3 ”. L’uomo sacro è, in epoca romana, l’individuo che ha commesso un crimine talmente grave da inficiare la pax deorum e per questo motivo è dichiarato “sacro”: nell’accezione, però, più deteriore di tale termine. L’ homo sacer è, infatti, separato dalla collettività di riferimento e, benché non possa essere messo a morte nelle forme prescritte dal rito (in quanto la sua vita appartiene agli dei), chiunque lo uccida non commette reato perché la sua morte viene considerata il sincero frutto della volontà divina: l’uccisore non è altro se non lo strumento della divinità. L’ homo sacer , in sostanza, non si può uccidere ma è uccidibile.

Agamben, proprio partendo dall’immagine dell’ homo sacer, in una sua opera, ricordò che “ i Greci non avevano un unico termine per esprimere ciò che noi intendiamo con la parola vita. Essi si servivano di due termini, semanticamente e morfologicamente distinti, anche se riconducibili a un etimo comune: zoé , che esprimeva il semplice fatto di vivere comune a tutti gli esseri viventi […] e bίos , che indicava la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo 4 ”. Il termine “ zoé ” i ndicherebbe, pertanto, unicamente la “nuda vita”, propria di qualsiasi essere vivente e divergerebbe, in tal senso, dal concetto di “ bίos” che indica, in parole povere, la vita quam vivimus . L’homo sacer, chiaramente, è titolare della nuda vita e, purtuttavia, “ il [suo] corpo nella sua uccidibile insacrificabilità, è il pegno vivente della sua soggezione a un potere di morte, che non è, però, l’adempimento di un voto, ma assoluta e incondizionata. La vita sacra è vita consacrata senz’alcun possibile sacrificio e al di là di qualsiasi adempimento 5 ”. Il concetto di “nuda vita” può accostarsi anche agli attuali “nemici” del diritto penalpopolare, poiché “ se è vero che la figura che il nostro tempo ci propone è quella di una vita insacrificabile, che è, tuttavia divenuta uccidibile in una misura inaudita, allora la nuda vita dell’homo sacer ci riguarda in modo particolare. La sacertà è una linea di fuga tuttora presente nella politica contemporanea, che, come tale, si sposta verso zone sempre più vaste e oscure, fino a coincidere con la stessa vita biologica dei cittadini. Se oggi non vi è più una figura predeterminabile dell’uomo sacro, è, forse, perché siamo tutti virtualmente homines sacri 6 .

Pensiamo, ad esempio, a chi subisce una condanna all’ergastolo: l’ergastolano è titolare della “nuda vita” ma, come l’ homo sacer , viene separato dalla comunità di riferimento e la sua “ bίos ” è praticamente inesistente. La sua è una vita insacrificabile ma è, tuttavia, sempre più uccidibile nel momento in cui il carcere eterno non rieduca ma si palesa come una “pena di morte viva 7 ”. Il carcere perpetuo sembra abbandonare i detenuti ad una sorta di “volontà divina” che si palesa come imperscrutabile ed inarrivabile: il sistema penitenziario ammassa ed abbandona “nude vite” senza garantire alcuna vita. In tal modo “ non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma […] c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose 8 ”.

È proprio in tale circostanza che diritto il penalpopolare mostra una contraddizione: nel momento in cui pretende di soffocare delle paure deve crearne altre per legittimarsi. Questo diritto penale promette di azzerare le paure sociali e, nel momento in cui “lo fa”, ne crea, necessariamente, delle altre. In quali termini un diritto che contempla il carcere a vita può, realmente, placare l’insicurezza sociale? A modestissimo parere di chi scrive credere che la detenzione e l’isolamento perpetuo possano liberare la società da qualsiasi male è un po’ come credere che “uno scoglio possa arginare il mare”: i tassi di recidiva, d’altronde, non sembrano sconfessare questa ipotesi. Isolare a vita chi ha commesso un reato, infatti, pare più rispondere ad un’esigenza di vendetta e ad una “logica” istintuale: è come se sapere i “nemici” isolati dalla società recasse un inconsapevole ristoro alla collettività “dei buoni”. In tutto questo, però, non esiste una rieducazione e senza quest’ultima vive unicamente il diritto penalpopolare: un diritto istintuale, irrazionale e destinato ad essere vittima di sé stesso. Qual è, d’altronde, il significato razionale dell’inasprimento compulsivo delle pene legate ai reati contro il patrimonio in periodo elettorale? Qual è, inoltre, il senso dell’ergastolo ostativo?

Il ripensamento del diritto penale, tuttavia, deve ripartire dalle basi della società perché l’interrogativo di fondo dovrebbe essere il seguente: “cosa si aspetta la società dalla pena? Cosa mi aspetto, io, dalla pena?”. Fino a che saranno gli impulsi vendicativi e le nostre paure a dettare le nostre scelte esisterà un diritto che si “riforma” durante le campagne elettorali, che produce una recidiva del settanta percento, esisteranno giudici che condannano anche quando la responsabilità non è accertata al di là di ogni ragionevole dubbio: è la società stessa a creare il diritto penalpopolare. La vera riforma del diritto penale passa, anzitutto, da ognuno di noi: solo una società razionale ed informata può dare alla luce un diritto penale “mite”, “minimo” e, in definitiva, capace di rieducare. Quanto possa incidere sulla pena una differente “visione sociale” è mirabilmente descritto in queste parole: “se tu penserai e giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese ma se capirai se li cercherai fino in fondo se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo9”.

Il diritto penale dovrebbe saper regolare la vita dei consociati, orientandone le scelte: per questo “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il primato deve essere attribuito all’uomo ed alla sua bίos ed il diritto non dovrebbe essere altro se non lo strumento per realizzarli pienamente.

Daniel Monni

1# FIANDACA G., Populismo Politico e Populismo Giudiziario, in Criminalia, 2013, pagine 95-121

2# Ibidem

3# FESTO, Sul significato delle parolo

4 # AGAMBEN G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 2005, pagina 3

5# Ibidem, pagina 111

6# Ibidem, pagina 127

7# Sul punto si consiglia la lettura dei libri di Carmelo Musumeci

8# EUSEBI L., Discorso del santo padre Francesco alla delegazione dell’associazione internazionale di diritto penale, in Rivista Italiana di diritto e Procedura penale, fascicolo 1, 2015, pagina 459

9# DE ANDRE’ F., La città vecchia