In Islanda è stata approvata quest’anno una legge che impone ai datori di lavoro di dimostrare che lo stipendio erogato ai propri lavoratori, a parità di mansione, sia lo stesso per uomini e donne. Una misura che non stupisce in un paese da decenni all’avanguardia nelle politiche sulla parità di diritti e opportunità tra i sessi, e a cui il resto dell’Europa – Italia in primis – dovrebbe ispirarsi. Troppo lenti, infatti, i progressi del continente nel suo complesso rispetto al tema dell’uguaglianza di genere, tanto che, secondo il Gender Equality Index 2017 di Eige (l’European Institute for Gender Equality), uscito a ottobre, il punteggio totale dell’Ue, in una scala da 1 a 100, è di soli quattro punti più alto rispetto a dieci anni fa. “Stiamo procedendo a passo di lumaca e siamo ancora molto lontani dall’essere una società che ha realizzato la parità di genere – ha dichiarato Virginija Langbakk, che dirige l’Istituto – in tutti i paesi dell’Unione europea ci sono margini di miglioramento e in alcuni ambiti il divario si è addirittura ampliato rispetto a dieci anni fa”. Secondo il report, infatti, due terzi degli Stati membri è ancora sotto la media europea e negli ultimi dieci anni ben 12 paesi hanno perso punti in una delle sei macro aree analizzate: uguaglianza su lavoro, soldi, istruzione, tempo, salute e potere. Se in testa troviamo come al solito i paesi scandinavi (si tratta di Svezia e Danimarca, mentre l’Islanda non ha partecipato a queste rilevazioni), l’Italia fa registrare finalmente una buona notizia: si tratta infatti del paese che ha registrato il miglioramento più ampio, guadagnando ben 12.9 punti e posizionandosi così al 14° posto nella classifica generale. Certo, sempre al di sotto della media Ue, ma con una posizione nettamente più favorevole rispetto a dieci anni fa.

Sono soprattutto il potere e l’istruzione i domini che hanno fatto guadagnare punti al nostro paese. Lo slancio è arrivato dalla Legge Golfo-Mosca del 2012, che prevede che un terzo dei posti nei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate e partecipate pubbliche sia riservato alle donne. E’ il cosiddetto sistema delle “quote rosa”, spesso criticato, che però ha permesso di passare da un misero dal 5,9% di rappresentanza femminile nel 2008 a oltre il 30% nel 2015. Se invece nel campo della politica c’è ancora molta strada da fare (la rappresentanza nel parlamento italiano è di molto inferiore rispetto ai paesi scandinavi), è sul lavoro che le grandi differenze permangono e colpiscono più duramente. Secondo il Global gender gap report del World Economic Forum, altro strumento che misura la disuguaglianza di genere ma a livello mondiale, l’insieme delle donne italiane percepisce il 52 per cento dei redditi guadagnati dall’insieme degli uomini, tra salari minori, maggior utilizzo del part-time da parte delle donne (spesso non voluto), difficoltà nel raggiungimento di posizioni apicali, secondo la classica metafora del “glass ceiling” (il “soffitto di cristallo”): si tratta di tutte quelle situazioni in cui l’avanzamento di carriera di una persona in una qualsiasi organizzazione lavorativa o sociale, o il raggiungimento della parità di diritti, viene impedito per discriminazioni – in questo caso di genere – che si frappongono come barriere insormontabili anche se apparentemente invisibili.

“I divari di genere persistono e in alcuni domini sono ancora più ampi rispetto ad un decennio fa” ribadisce ancora Virginija Langbakk, riferendosi all’Europa nel suo complesso e al rapporto Eige. E anche per quanto riguarda l’Ue i progressi nella macro area del lavoro sono stati definiti stagnanti, anche se le situazioni differiscono, ovviamente, da stato a stato. “La segregazione dei sessi nell’occupazione persiste e vi sono ancora ostacoli all’accesso al mercato del lavoro, soprattutto per le donne con disabilità e per le donne con scarsa qualificazione” si legge. Il dominio del denaro appare invece migliorato, anche se tra le criticità viene indicato un divario tra i sessi nei guadagni del 20%, che però diventa quasi il doppio per le coppie con figli e genitori soli, indicando un “gap retributivo maternità”: “Nel corso della vita, queste ineguaglianze portano ad una maggiore esposizione alla povertà per le donne in età avanzata e un divario di pensione di genere del 40%”.

Un capitolo particolarmente critico riguarda infine il dominio del tempo, dove le disuguaglianze di genere sono persistenti e crescenti, tanto che il report in dieci anni non ha mai registrato alcun miglioramento. Succede che solo ogni terzo degli uomini si impegna quotidianamente nella cucina e nei lavori domestici per un’ora o più, onere che diventa ancora più elevato tra le donne immigrate. Un allarme a suo tempo già lanciato dall’Ocse e che non risparmia – anzi! – il nostro paese: lo chiamano “lavoro non pagato”, ovvero quello per la cura dei figli, dei parenti e della casa e le donne italiane vi dedicano in media oltre cinque ore al giorno, ponendosi al quarto posto tra i paesi analizzati. Il dato si collega direttamente al problema della scarsa collaborazione dei partner: secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, con appena 100 minuti al giorno di media, gli uomini italiani si piazzano al quarto posto tra i meno impegnati nelle attività di cura della famiglia. Un divario che purtroppo ha forti radici socio-culturali, tra ruoli irrigiditi e prestabiliti, un contesto che spesso costringe la donna a scegliere tra famiglia e lavoro, senza la possibilità di conciliazione, urgenza al giorno d’oggi quanto mai necessaria. Insomma, un’ingiustizia che si somma alle altre, e che secondo Virginija Langbakk dell’Eige starebbe già attirando l’attenzione dei responsabili politici: la Commissione Europea avrebbe infatti già presentato un “pacchetto di equilibrio tra lavoro e vita” con misure concrete per affrontare la questione. “L’uguaglianza di genere è fondamentale per una crescita intelligente e sostenibile dell’Unione europea – spiega Langbakk – Non solo promuove lo sviluppo economico ma contribuisce anche al benessere complessivo e ad una Europa più inclusiva e più giusta per le donne e gli uomini. Eppure, sebbene siano stati compiuti notevoli progressi nel miglioramento del livello di parità tra i sessi, è ancora necessario continuare a lavorare in tutti gli Stati membri”.

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