Ormai anche in Italia la miseria è diventata un fatto palpabile che non può essere risolto senza occuparsi di debito pubblico. Di per sé il debito non è sempre rovinoso. In tempi di sottoccupazione può essere un’ottima scelta se è finalizzato al bene comune ed è finanziato attraverso i canali della sovranità monetaria. In tal caso la somma mancante è coperta con moneta di nuova emissione, che oltre ad avere effetti stimolanti su produzione, consumi e occupazione, ha il vantaggio di non dover essere restituita. Diverso è il debito contratto per l’arricchimento di pochi tramite il ricorso a prestiti privati. In tal caso rappresenta un salasso perché alla restituzione del capitale vanno aggiunti gli interessi, senza che la comunità abbia goduto di alcun beneficio.
Purtroppo da più di trent’anni, già prima di entrare nell’euro, lo Stato italiano si è ridotto al pari di una qualsiasi famiglia che dipende dalle banche per qualsiasi spesa eccedente le entrate. Il suo debito nei confronti dei privati oggi ha raggiunto 2.270 miliardi di euro e ci procura una spesa per interessi che ruota attorno al 10% delle entrate fiscali. Nel 2016 è stata pari a 68 miliardi di euro, nel 2012 addirittura 87 miliardi per un semplice capriccio della speculazione. Soldi di tutti, che invece di andare a finanziare scuole, trasporti pubblici, sanità, ricerca, tutela dell’ambiente, vanno ad ingrassare gli azionisti delle grandi strutture finanziarie. In effetti solo il 5,4% del debito pubblico italiano è detenuto dalle famiglie. Tutto il resto è nelle mani di banche, assicurazioni, fondi d’investimento, così detti investitori istituzionali, sia italiani che esteri. Più precisamente quelli italiani detengono il 63,1% del nostro debito, quelli esteri il 31,5%.
Si può senz’altro affermare che il debito verso i privati è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi perché solo i facoltosi hanno un sovrappiù da prestare allo stato. E i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale. Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza accumulata sotto forma di case, terreni, titoli, le famiglie più ricche, pari al 10% del totale, detengono il 46% dell’intera ricchezza privata, quelle più povere, pari al 50% del totale, posseggono il 9,4%. I segnali di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. Ogni individuo del 10% più ricco ha un introito annuale di 77.189 euro, mentre quelli del 10% più povero si fermano a 6.521 euro. Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore degli anni ottanta quando il rapporto era 8 a 1.
Il sottoprodotto dell’ingiustizia è la miseria che il debito aggrava tramite l’austerità, scelta classica di uno Stato asservito alla finanza. Assunto come priorità il pagamento degli interessi, lo stato cerca di raggranellare il dovuto aumentando le entrate e riducendo le spese. Ma se conduce l’operazione tassando poveri e ceto medio, invece che ricchi e benestanti, e tagliando servizi essenziali, invece che sprechi e privilegi, per molte famiglie le conseguenze sono drammatiche. Le statistiche confermano che 7 milioni di persone, 11,6% della popolazione italiana, vivono ormai ridotti in stato di grave deprivazione materiale. E se allarghiamo la visuale a chi vive nelle ristrettezze, scopriamo che le persone a rischio povertà, o esclusione sociale, sono 17 milioni e mezzo, quasi un terzo della popolazione italiana.
Lungo questa strada, l’intero sistema entra in una spirale di crisi che trascina tutti verso il fondo. Se aumentano le persone in difficoltà, i consumi si contraggono, le imprese non ricevono ordini, i licenziamenti si moltiplicano. Più nessuno investe in attività produttive, l’unico settore in espansione è la finanza. Negli ultimi 10 anni in Italia la domanda complessiva si è ridotta ai minimi storici facendo salire la disoccupazione alle stelle. Nel 2016 i disoccupati erano 3 milioni pari all’11,7% della forza lavoro. Ma il dato si riferisce solo a chi cerca attivamente lavoro. Se si includesse nel conteggio anche coloro che un lavoro salariato lo vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati, il numero dei disoccupati salirebbe a 5,5 milioni, il 21,6% della forza lavoro. Purtroppo anche la pubblica amministrazione contribuisce al problema: fra il 2013 e il 2016 ha perso 84mila unità.
Da oltre trent’anni, ogni governo dichiara di porsi come priorità l’abbattimento del debito, ma se ne va lasciandosi dietro un debito sempre più alto. E non perché viviamo al di sopra delle nostre possibilità, come qualcuno vorrebbe farci credere, ma perché non ce la facciamo a tenere il passo con gli interessi. L’esame dei bilanci pubblici dimostra che siamo dei risparmiatori, non degli scialacquatori. Ad esempio nel 2016 abbiamo risparmiato 25 miliardi di euro: a tanto ammonta la differenza fra ciò che abbiamo versato allo Stato sotto forma di tasse e ciò che abbiamo ricevuto indietro sotto forma di servizi, investimenti, previdenza sociale. Ciò nonostante nel 2016 il debito pubblico è cresciuto di altri 40 miliardi perché il risparmio accumulato non è stato sufficiente a coprire tutta la spesa per interessi. Questa storia si ripete dal 1992 e ciò spiega perché da allora il nostro debito è passato da 850 a 2.270 miliardi di euro, nonostante 768 miliardi di risparmi. E’ semplicemente successo che su una somma complessiva di 2038 miliardi di interessi, 1270 sono stati pagati a debito.
Il debito che si autoalimenta attraverso gli interessi è una delle forme più odiose di strangolamento: è usura. Ma gli strumenti per sottrarci a questo meccanismo perverso ci sono: vanno dal congelamento degli interessi, al ripudio del debito illegittimo; dall’imposizione di un prestito forzoso a carico dei cittadini più agiati, ad una tassazione progressiva del reddito e del patrimonio; dall’introduzione di una moneta complementare nazionale, alla riforma della Banca Centrale Europea; dal controllo della fuga di capitali alla regolamentazione della speculazione sui titoli del debito pubblico. Il problema non sono gli strumenti, ma la volontà di perseguire politiche non gradite ai ricchi e ai poteri della finanza.
L’unica forza capace di imporre un’altra gestione del debito, rispettosa dei diritti sociali, è la pressione popolare. Ma i cittadini si attivano solo se si rendono conto dei danni che subiscono. Di qui il ruolo centrale dell’informazione che tutti dovrebbero assumere, a maggior ragione le realtà che lottano contro l’esclusione sociale. Che aspettano associazioni, sindacati, movimenti, parrocchie, ad unire le forze per organizzare una grande campagna di informazione pubblica sui nessi esistenti fra debito pubblico e disagio sociale? Il silenzio su questo tema non è più tollerabile.