Il video di una bambina statunitense cui viene regalato un fucile da tiro sportivo – postato in evidenza sulla pagina Facebook di Beretta U.S.A. – ha fatto il giro del mondo, ottenendo migliaia di visualizzazioni e un ampio numero di commenti in buona parte critici. Possiamo comprendere le reazioni contrastanti e lo sdegno evidenziati da più parti: crediamo però che queste pur legittime manifestazioni possono correre il rischio di allontanarci da alcune questioni di interesse generale.

La Fabbrica d’Armi Pietro Beretta, principale produttrice italiana di armi leggere e una delle più importanti imprese del settore a livello internazionale, presenta infatti come molte altre aziende del comparto, diverse criticità soprattutto per quanto concerne la trasparenza e la responsabilità sociale d’impresa.

Alle aziende italiane ed europee di questo settore è stato più volte chiesto da parte delle associazioni attente al controllo del commercio di armi, di rendere pubbliche le produzioni, per quantità e tipologie d’arma, i committenti, e gli effettivi utilizzatori finali dei prodotti, gli istituti di credito di supporto, le reti di trasporto e di consegna e gli intermediatori commerciali. Non ci risulta sia mai stata data risposta a queste domande e a tutt’oggi le sulle esportazioni di armi di tipo militare e ancor più riguardo a quelle destinate ad apparati di sicurezza, pubblici e privati, ed anche per le così dette “armi comuni”, permangono ampie zone d’ombra.

Si tratta di informazioni che, sulla base di legislazioni spesso compiacenti, non sono richieste dalle norme vigenti nemmeno nei paesi europei, ma che potrebbero essere fornite, senza violare la necessaria riservatezza, nell’ambito delle politiche di responsabilità sociale d’impresa di cui gran parte delle aziende del settore si è dotata. La trasparenza in questo settore è infatti un elemento essenziale per un effettivo ed efficace controllo dei movimenti di armi, per prevenire forme di traffici illeciti e per una maggior sicurezza a livello internazionale.

L’emozione di Presley, la bambina del filmato, non deve soprattutto farci dimenticare le tante vittime legate all’uso delle armi negli Stati Uniti. In quel paese tra le 600 e le 800 persone muoiono ogni anno per incidenti legati alle armi da fuoco. Nel solo 2009, secondo un recente studio di “Pediatrics”, 7.391 bambini o adolescenti sono stati ricoverati per ferite da arma da fuoco, ferite che sono la seconda causa di morte tra i bimbi americani. Senza dimenticare che la presenza di una pistola o di un fucile aumenta del 400 per cento la possibilità di lesioni gravi in una casa.

Più in generale, dobbiamo purtroppo segnalare che le armi leggere e di piccolo calibro costituiscono, secondo l’inequivocabile e storica dichiarazione dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan ONU, “le armi di distruzione di massa” del nostro tempo. Da diversi decenni le morti per armi da fuoco sono, costantemente, tra le 250.000 e le 300.000 all’anno, circa un morto ogni 2 minuti. Le aziende italiane ed europee del settore hanno dato il loro contributo sia nella diffusione dei loro prodotti “ad uso civile”, sia con armi di tipo militare che hanno alimentato i numerosi conflitti armati che si stanno susseguendo senza sosta da oltre un ventennio nel mondo.

Alla luce di tutto ciò, l’emozione e l’indignazione per quanto accaduto, senza azioni e scelte conseguenti, rischia di essere sterile ed avere un valore circoscritto. È fondamentale richiamare tutti gli operatori del settore alle loro precise responsabilità, essendo consci che solo l’impegno determinato e costante di tutti noi può fermare la barbarie e i drammi che si consumano ogni giorno in tante parti del mondo.

 

Si veda: John M. Leventhal, Julie R. Gaither, Robert Sege, “Hospitalizations Due to Firearm Injuries in Children and Adolescents”, pubblicato sulla rivista Pediatrics, February 2014, Volume 133 e qui disponibile: http://pediatrics.aappublications.org/content/133/2/219

 

Brescia, 9 febbraio 2017