Durante la lunga prima fase della storia dell’umanità, e soprattutto nei millenni che precedettero l’affermarsi delle civiltà patriarcali, le donne – attraverso il cui corpo veniamo alla vita – sono state osservate, narrate e raffigurate come espressione della forza creatrice in migliaia di storie di creazione e di statuette femminili, tornate alla luce in abbondanza durante l’ultimo secolo. Una forza creatrice non circoscritta alla “riproduzione della specie”, ma che includeva capacità di invenzione, di governo, di cure finalizzate a un ponderato utilizzo delle risorse naturali.

L’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas (1921-1994), riprendendo la strada aperta da pionieri quali Gordon Childe, Jacquetta Hawkes, Arthur Evans, James Mellaart e Jane Ellen Harrison, ha riportato alla luce la civiltà pacifica ed egualitaria dell’Europa del Neolitico, che per oltre 4.000 anni era rimasta nascosta sotto gli strati delle culture dei popoli insediatisi al suo posto: come i Faraoni che, dapprima seduti sulle ginocchia della madre Iside, da un certo punto in poi siedono soli sul trono. Trono che è il simbolo stilizzato e desessuato di ciò che rimane nelle culture patriarcali della sapienza sviluppata dalle precedenti società matrifocali.

Grazie alla sua straordinaria formazione accademica in archeologia, mitologie comparate, linguistica, folclore ed etnografia storica, alle sue campagne di scavo nella penisola balcanica in siti inesplorati e al suo metodo d’indagine interdisciplinare per cui lei stessa inventò il termine archeo-mitologia, M. Gimbutas ha mostrato come l’Europa nel Neolitico avesse conosciuto una lunga fase di civiltà tutt’altro che “primitiva”, che precedette di qualche millennio l’arrivo dei popoli che comunemente definiamo indo-europei. La gente viveva in insediamenti anche vasti, che non mostrano traccia di guerre né di disuguaglianze sociali o di genere, si dedicava alle arti oltre che alla produzione dei beni necessari alla sopravvivenza e aveva sviluppato un raffinato sistema di credenze religiose, al cui centro stava la figura femminile. Nel suo corpo e con i suoi ritmi di sangue rifletteva la ciclicità del tempo, delle stagioni della terra e delle stelle, della vita che si rinnova e della rigenerazione che segue a ogni morte.

Dall’arte del Neolitico europeo, dalla posizione e dalla planimetria dei villaggi e delle case, dal ricco simbolismo ricorrente emerge con forza un senso di armonia e un orientamento verso la ricerca costante di un equilibrio dinamico tra le forze divergenti. Elementi che indicano la coscienza e la volontà di sostenere il processo continuo della Creazione.

Così facendo, M. Gimbutas non solo riporta indietro di molti millenni l’orologio del tempo storico, ma interroga il concetto stesso di “civiltà” finora attribuito proprio ed esclusivamente a quei popoli guerrieri che, in ondate successive durate circa due millenni a partire dal 3500 a.C., arrivarono a cavallo e con armi sempre più micidiali, arrestando quella Civiltà e imprimendo alla storia un’altra direzione.

Anche Momolina Marconi (1912-2006) ha dedicato la sua vita alla ricerca di una comprensione più ampia dell’antico passato europeo, consapevole dei limiti della collocazione dell’inizio della storia occidentale nella Grecia Classica e a Roma. Il suo primo e più importante libro uscì nel 1939, Riflessi Mediterranei nella più Antica Religione Laziale, pubblicato quando aveva solo 27 anni. Docente di Storia delle Religioni presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Milano, ha ricoperto questo incarico ininterrottamente dal 1948 al 1982.

La sua formazione era letteraria ed è sulla base della sua sconfinata conoscenza di testi e autori classici che ha realizzato il suo compendio sulle vicende, le parentele e le sovrapposizioni delle divinità mediterranee. L’altrettanto vasta conoscenza dei reperti archeologici, custoditi in Italia e nei vari musei e siti del Mediterraneo, ha sostanziato le sue intuizioni fornendo le prove iconografiche di una religiosità inequivocabilmente centrata sul femminile.

Nel tardo Paleolitico e nel Neolitico l’Italia, comprese Sardegna e Sicilia, era popolata da una popolazione di cultura affine a quella del resto del Mediterraneo, scrive M. Marconi. Erano popoli come i Protosardi, o i Paleoetruschi, strettamente imparentati con i Minoici e gli abitanti delle coste del Mar Nero, fino alla Colchide, che ha un’importanza centrale nella sua visione. Questa regione, che si affaccia sul Mar Nero orientale, è la zona dove il Caucaso scende nel mare, con alle spalle un vasto territorio a quel tempo chiamato Iberia. E’ da qui che si diffuse la popolazione mediterranea pre-indoeuropea che, un po’ alla volta, s’insediò lungo tutte le coste del Mediterraneo, arrivando fino alla Spagna e portando con sé i nomi delle terre d’origine. Erano i Pelasgi, o Popoli del mare, un insieme di popoli con un’origine comune. M. Marconi azzarda delle ipotesi anche sulla loro origine più remota (che le recenti indagini sulla genetica delle popolazioni hanno confermato): erano popolazioni nord-africane, spintesi a nord e poi diffuse nel bacino mediterraneo, o attraversando il mare o risalendo via terra attraverso la Palestina e il Medio Oriente, stabilendosi lungo i territori che si affacciano sull’attuale Mar Nero. I rinvenimenti ossei di tutto questo vasto areale attestano la presenza di una popolazione “dolicocefala mediterranea”, le cui tracce arrivano fino in India e a Ceylon, passando per l’Anatolia.

Questa tesi, recentemente riproposta sulla base dello studio dell’euskera, la lingua basca, che mostra molte somiglianze con l’etrusco, il cretese-minoico, l’iberico-tartesico e il berbero, ricevette un’importante conferma nel 1935-36, quando nella vallata del fiume Indo venne scoperta la civiltà di Mohenjo Daro e Harappa dall’archeologo Gordon Childe. I resti di quegli ampi e articolati insediamenti urbani, datati dal 2700 al 2000 a.C., presentano caratteristiche molto diverse dalla successiva cultura indo-aria, sia dal punto di vista architettonico che delle divinità venerate. M. Marconi, come altri studiosi di quegli anni, fu colpita dalla grande somiglianza tra le popolazioni mediterranee e questa nuova antica civiltà di cui si erano finalmente ritrovate le tracce, che confermava l’ipotesi che la civiltà pelasgica si fosse estesa dalla penisola iberica fino alla vallata dell’Indo, comprendendo anche l’Egitto pre-dinastico.

Con M. Marconi ci troviamo quindi davanti a una visione complementare a quella di M. Gimbutas. Non credo che quest’ultima conoscesse il lavoro di M. Marconi, che non compare nei suoi riferimenti bibliografici, probabilmente per la semplice ragione che l’opera di Marconi non ebbe circolazione fuori dal nostro paese, come capita spesso ai libri scritti in italiano. I suoi scritti, pubblicati fra il 1939 e il 1942, videro la luce negli anni della guerra, gli stessi in cui M. Gimbutas frequentava l’università a Vilnius e si laureava nell’alternarsi delle invasioni tedesca e russa: fa riflettere constatare che entrambe abbiano studiato e pubblicato in quel periodo di conflitto “mondiale”, descrivendo le radici pacifiche – e dimenticate -dell’Europa continentale e mediterranea.

Luciana Percovich