Globalizzazione e tecnologia sono spacciate per processi naturali e inevitabili. In realtà il loro percorso, nella misura in cui ha portato ad una maggiore diseguaglianza, è decisamente tracciato da scelte politiche. E’ molto più facile avere un sistema economico che produce più uguaglianza piuttosto che uno che genera inutilmente la disuguaglianza e poi noi tentiamo di moderarla con politiche redistributive.

di Dean Baker, 27 Ottobre, Institute for New Economic Thinking.
Ripreso da Counterpunch.
Traduzione dall’Inglese di Leopoldo Salmaso

 

La globalizzazione e la tecnologia sono di solito citate fra i principali fattori di disuguaglianza negli ultimi quattro decenni. Mentre l’importanza relativa di questi fattori è contestata, entrambi sono spesso visti come prodotti naturali e inevitabili del funzionamento dell’economia, piuttosto che come il prodotto di consapevoli scelte politiche. In realtà, sia il corso della globalizzazione che la distribuzione dei frutti da innovazione tecnologica sono decisamente il risultato di scelte politiche. Nella misura in cui essi hanno portato ad una maggiore disuguaglianza, questo è stato il risultato di scelte politiche consapevoli.

Cominciando con la globalizzazione, non c’era niente di pre-determinato su un modello di liberalizzazione del commercio che ha messo i lavoratori del settore manifatturiero degli USA in diretta concorrenza con le loro controparti a salario molto più basso nel mondo in via di sviluppo. Invece, quella concorrenza era il risultato di patti commerciali scritti per rendere il più semplice possibile per le multinazionali statunitensi investire nel mondo in via di sviluppo per trarre vantaggio dal basso costo del lavoro, e quindi importare i loro prodotti di nuovo negli USA. Il risultato previsto ed effettivo di questa impostazione degli scambi è stato quello di abbassare i salari per i lavoratori del settore manifatturiero, e più in generale per i lavoratori privi di istruzione universitaria, perché i lavoratori espulsi dal manifatturiero si riversano in altri settori dell’economia.

Invece di mettere solo i lavoratori del manifatturiero in concorrenza con i lavoratori a basso reddito in altri paesi, i nostri accordi commerciali avrebbero potuto mirare ad esporre alla concorrenza internazionale medici, dentisti, avvocati e altri professionisti altamente pagati. In realtà quasi nulla è stato fatto per rimuovere le barriere protezionistiche che consentono ai professionisti altamente qualificati negli USA di guadagnare molto di più rispetto ai loro omologhi di altri paesi ricchi.

Questo fatto è più evidente nel caso dei medici. Di regola, è impossibile che medici stranieri esercitino la professione negli Stati Uniti a meno che non abbiano completato un programma di internato negli Stati Uniti. Il numero di posti di internato, a sua volta, è strettamente limitato, così come il numero di permessi per studenti di medicina stranieri. Anche se questa è una limitazione palesemente protezionistica, essa è rimasta in gran parte indiscussa attraverso un lungo processo di liberalizzazione del commercio che ha radicalmente ridotto o eliminato la maggior parte delle barriere sugli scambi di merci. Il risultato è che i medici negli Stati Uniti guadagnano in media più di 250.000 dollari l’anno, più del doppio dei loro colleghi in altri paesi ricchi. Questo costa agli USA circa 100 miliardi di dollari all’anno in spese mediche più elevate rispetto ad uno scenario in cui i medici statunitensi percepiscano introiti pari a quelli dei medici europei. Gli economisti, compresi gli esperti in scambi internazionali, in gran parte hanno scelto di ignorare le barriere che mantengono alta la retribuzione professionale, con enormi costi economici.

Oltre alle poste oggetto di commercio, anche il saldo commerciale complessivo è decisamente il risultato di scelte politiche. I libri di testo dicono che i capitali fluiscono dai paesi ricchi ai paesi poveri, il che implica che i paesi ricchi realizzino surplus commerciali con i paesi poveri. Mentre questo ha descritto con precisione la struttura degli scambi negli anni ’90 fino alla crisi finanziaria asiatica (un periodo in cui i paesi di quella regione godettero di una crescita molto rapida), negli ultimi due decenni i paesi in via di sviluppo nel loro insieme hanno accumulato grandi eccedenze commerciali con i paesi ricchi.
Ciò implica grandi deficit commerciali nei paesi ricchi, in particolare negli USA, il che a sua volta ha significato una ulteriore perdita di posti di lavoro nel settore manifatturiero, con il conseguente impatto amplificatore sulla disuguaglianza salariale. Tuttavia, non c’era nulla di inevitabile nei cambiamenti di strategie connessi con il piano di salvataggio dalla crisi finanziaria asiatica che ha portato il mondo in via di sviluppo a diventare un esportatore netto di capitali.

L’andamento dei guadagni da tecnologia è stato determinato ancora più direttamente dalla politica rispetto a quanto avvenuto con i guadagni provenienti dal commercio. Nel corso degli ultimi quattro decenni c’è stato un notevole rafforzamento e allungamento dei brevetti e diritti d’autore e protezioni correlate. Le leggi sono state cambiate per estendere i brevetti a nuovi settori quali forme di vita, metodi di lavoro, e software. La durata del copyright è stata estesa da 55 anni a 95 anni. Forse ancora più importante, le leggi sono diventate molto più benevole per le pretese dei titolari di queste rivendicazioni di proprietà a far pendere i procedimenti giudiziari a loro favore, con corti sempre più favorevoli ai brevetti e con più dure sanzioni per le violazioni. Inoltre gli USA hanno posto più stringenti regole sulla proprietà intellettuale (IP) al centro di ogni accordo commerciale che sia stato negoziato nel corso dell’ultimo quarto di secolo.

In questo contesto può difficilmente sorprendere che lo sviluppo della “tecnologia” stia causando una redistribuzione del reddito verso l’alto. Le persone in grado di trarre profitto da regole sull’IP più stringenti sono quasi esclusivamente quelle con elevato livello di istruzione e quelle nella fascia più alta della distribuzione del reddito. E’ quasi da definizione che regole IP stringenti si traducano in una redistribuzione verso l’alto del reddito.

Questa redistribuzione verso l’alto potrebbe essere giustificata se regole IP più forti avessero portato ad una crescita più rapida della produttività, beneficiando in tal modo l’economia nel suo complesso. Tuttavia ci sono pochissimi elementi a sostegno di tale affermazione. Michele Boldrin e David Levine hanno fatto notevoli ricerche su questo argomento e in generale hanno trovato il contrario. Il mio lavoro, con l’utilizzo di analisi regressive fra vari paesi con misure standard di forza del brevetto, generalmente ha trovato una relazione negativa e spesso significativa tra forza dei brevetti e crescita della produttività.

Inoltre c’è una notevole quantità di denaro in gioco. Nel solo caso dei farmaci da prescrizione, gli USA vanno a spendere più di 430 miliardi di dollari nel 2016 per farmaci che probabilmente costerebbero un decimo di tale importo in assenza di brevetti e protezioni correlate. Mentre abbiamo bisogno di meccanismi che finanzino l’innovazione e il lavoro creativo, è quasi certo che brevetti e diritti d’autore monopolistici, così come attualmente strutturati, non siano la strada più efficiente, oltre al fatto che hanno evidenti conseguenze negative per la distribuzione della ricchezza.

La strutturazione del commercio e delle norme in materia di IP sono due modi importanti in cui la politica è stata progettata per ridistribuire il reddito verso l’alto nel corso degli ultimi quattro decenni. Ci sono molti altri modi in cui il mercato è stato strutturato a svantaggio di quelli che stanno in mezzo e in basso nella distribuzione del reddito, forse più in particolare le politiche macroeconomiche che si traducono in alti tassi di disoccupazione. Mentre politiche fiscali e di trasferimento che riducano la povertà e la disuguaglianza possono essere desiderabili, dobbiamo soprattutto essere consapevoli dei modi in cui la politica è stata progettata per aumentare le disuguaglianze. E ‘molto più facile avere un sistema economico che produce più uguaglianza piuttosto che uno che genera inutilmente la disuguaglianza, e poi noi cerchiamo di moderarla con politiche redistributive.