L’esito del referendum costituzionale d’autunno è incerto. Fino a pochi mesi fa nei sondaggi prevaleva il Sì alla riforma. Ultimamente sembra in vantaggio il No. Tutti i sondaggi sono concordi nel rivelare che sono moltissimi gli indifferenti e gli indecisi, che ammettono di non conoscere l’argomento o che sono incerti se sia meglio esprimere un Sì o un No.

Qualora l’esito del referendum risultasse favorevole ai riformatori, secondo alcuni costituzionalisti resterebbe aperto un problema di legittimità della riforma. In particolare Alessandro Pace, già fondatore e presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, sostiene che questo Parlamento, eletto con una legge elettorale giudicata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014, non era legittimato ad approvare revisioni costituzionali.

L’intendimento della Consulta – spiega Pace in una recente intervista – in quella sentenza era chiaro: le Camere, ancorché delegittimate, avrebbero potuto e dovuto approvare al più presto le nuove leggi elettorali, non già in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, ma in forza del «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato», e subito dopo avrebbero dovuto essere sciolte. Invece, le Camere hanno continuato ad operare. Anzi, nonostante non fossero rappresentative, venne loro affidato il compito più oneroso che possa essere attribuito ad un’assemblea politica: la “riforma” della Costituzione. Un vero e proprio azzardo perché la Consulta, aveva fatto capire, con due esempi, che il «principio fondamentale della continuità degli organi dello Stato» può operare solo per brevi periodi di tempo. La Consulta citò infatti gli articoli 61 e 77 della Costituzione, i quali consentono bensì la prorogatio delle funzioni dei parlamentari in caso di scioglimento delle Camere, ma tutt’al più solo per un paio di mesi di tempo”.

È evidente che un “vulnus” di questa natura non può essere sanato nemmeno dall’eventuale esito positivo di un referendum popolare. Anche perché proprio la Corte Costituzionale, nel motivare l’incostituzionalità della legge elettorale cosiddetta “porcellum”, in quella sentenza ha specificato che “le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile», fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.)”. E l’articolo 138 è proprio quello che riguarda la procedura di revisione della Costituzione.

In altre parole, si è creato un cortocircuito: il Parlamento è l’organo politico che svolge anche la delicata funzione di garantire una corretta procedura di revisione costituzionale. Pertanto non avrebbe dovuto subire “una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali”. Proprio il Parlamento che – a causa della legge elettorale vigente nel 2013 – ha subito questa compressione, ha approvato una revisione costituzionale. La contraddizione è palese ed insuperabile. Come minimo si potrebbe dire che l’attuale Parlamento abbia ecceduto nel proprio compito. Essendo stato eletto in modo distorto, una maggior cautela sarebbe stata non solo opportuna ma anche necessaria.

Ancor più spregiudicata – si potrebbe dire – l’attività dell’attuale Governo, che ha avuto un ruolo centrale nel progetto di revisione e soprattutto che ha scelto di collegare strettamente il proprio mandato all’approvazione della riforma. Persino ad un giocatore d’azzardo non è consentito scommette sulle regole del gioco. Il Governo, per correttezza, avrebbe dovuto svolgere un ruolo imparziale rispetto alla riforma della Costituzione. Invece, ha usato e sta usando la riforma costituzionale come principale arma politica, in modo palesemente strumentale. Non ci sarebbe molto da aggiungere, se non per marcare l’infinita distanza tra Matteo Renzi, che in qualsiasi occasione non tralascia di parlare della revisione della Costituzione, e Alcide De Gasperi, che presiedeva il Governo durante l’Assemblea Costituente.

Come ha sottolineato qualche anno fa Leopoldo Elia “l’allora Presidente del Consiglio scelse di proposito una linea di non interferenza governativa nell’elaborazione della nuova Costituzione (il banco del Governo era riservato al Comitato direttivo della Commissione dei 75), con un riguardo giustificato anche dall’eterogeneità delle componenti partitiche dell’esecutivo; tanto che quando De Gasperi parlò dell’art. 7 intervenne dal suo seggio di deputato come leader della Democrazia Cristiana e non come Presidente del Consiglio. Questo scrupolo di non mescolare attività di governo ed attività costituente si rivelò particolarmente avveduto, per meglio affermare la distinzione dei due livelli di azione dell’Assemblea, garantendo la continuità di clima collaborativo nella fase conclusiva del lavoro dedicato alla nuova Costituzione”.

In Italia nel dopoguerra non sono mancati in politica esempi di comportamenti corretti e rispettosi dei ruoli e delle funzioni. Una virtù – purtroppo – sempre più rara negli ultimi decenni. C’è da augurarsi che il popolo sovrano tenga conto di queste differenze, dovendo scegliere tra la Carta voluta dai Costituenti e la riforma scritta dagli ultimi arrivati.