Da comune-info.net

di Alberto Zoratti*

L’appuntamento è a New York il 22 aprile prossimo e il dressing code è per le grandi occasioni. Sarà Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni unite, ad accogliere le rappresentanze di più di 130 Paesi per far loro apporre la firma ufficiale all’Accordo sul clima concluso a Parigi poco più di quattro mesi fa. Sono i primi passi di un risultato da molti definito “storico” per la lotta al cambiamento climatico, una nuova governance climatica capace di tenere a bordo tutti i Paesi del mondo ma su una base sostanzialmente volontaria. Sono 161 i Paesi che hanno presentato i contributi nazionali (INDCs) che dovranno applicare e su cui saranno giudicati sul lavoro fatto. Un giudizio sui generis, in verità, perché non avrà sanzioni in caso di non ottemperanza. D’altra parte è la filosofia del “pledge and review“, “prometti e verifica”, in cui se non mantieni le promesse poi alla fine finisce tutto a tarallucci e vino. Ma d’altro canto, se il significato di quella “C” nell’acronimo INDCs è “contributions” (contributi) e non “commitments” (impegni) qualcosa vorrà dire.

Il nostro governo ci sarà, formalmente rappresentato dall’Unione europea. Quanto poi alla retorica del ministro Galletti seguiranno passi efficaci per contrastare il cambiamento climatico è tutto da vedere. Dopotutto in vista del referendum del 17 aprile, il panorama non è stato dei più edificanti, visto che per Galletti è “ipocrita continuare a usare il petrolio ma non volerlo estrarre” mentre “ci sta bene andarlo a prendere in altre parti del mondo, dove la sicurezza è minore.

Il ministro, lo stesso che ha sostenuto l’Accordo di Parigi sul clima, dimentica di ricordare che l’Italia ha una Strategia Energetica Nazionale approvata nel 2013 e che ha come prospettiva il 2020, che in Italia “continuare a usare il petrolio” è conseguenza degli interessi incrociati che esistono tra le imprese estrattive e i decisori politici (ovviamente Eni, con la golden share del governo, ma il caso Tempa Rossa e Total rischia di scoperchiare questioni più preoccupanti).

E dimentica che la minor sicurezza, sventolata parlando delle estrazioni petrolifere “in altre parti del mondo”, non parla bene tanto dei contesti quanto delle imprese estrattive: significa forse che se imprese come Eni estraggono in giro per il mondo, le procedure di sicurezza sono meno stringenti? Forse, da rappresentante di un governo che assieme alla Cassa Depositi e Prestiti controlla il 30 per cento delle azioni, sarebbe meglio facesse chiarezza. La coerenza, e non l’ipocrisia, si dimostrerebbero se un governo oltre a firmare un accordo non vincolante, sostenesse le ragioni del Sì al referendum. Difficile però trovarla, nel momento in cui interessi economici e politici rischiano di mescolarsi nella più totale opacità.

E d’altro canto è utopistico pensare a sviluppi diversi davanti a un governo che ha sposato fin da subito le tesi confindustriali sullo sviluppo, sull’energia, sul lavoro e l’occupazione e sulle liberalizzazioni. Il Ttip, l’accordo transatlantico tra Unione europea e Stati uniti, ne è un esempio lampante. Che ha visto il nostro governo tra i principali sostenitori di un accordo che impatterebbe pesantemente sulle piccole e medie imprese, sulla nostra agricoltura di qualità, a tutto vantaggio delle grandi imprese europee e statunitensi.

Basterebbe pensare a cosa accadrebbe se, approvato il Ttip, ci ritrovassimo un arbitrato internazionale per la tutela degli investitori capace di sanzionare i Paesi in caso di politiche contrarie all’interesse dei privati. Sarebbe un’arma sostanziale in mano, per esempio, alle imprese energetiche del tutto simile a quella già usata in un altro accordo di liberalizzazione a cui l’Italia ha aderito (e da cui è fuggita l’anno scorso), l’Energy Charter Treaty, e a causa del quale il nostro Paese ha in corso diverse denunce davanti ad arbitrati internazionali per aver modificato la propria politica di incentivazione energetica sul fotovoltaico.

Per questo diventa ineludibile trovare i punti di contatto tra questioni che apparentemente sembrano distanti. Parigi, a dicembre, ha visto migliaia di persone mobilitarsi in occasione della Conferenza sul clima. Il referendum del 17 aprile è un’altra grande occasione per dimostrare che esiste un altro modello energetico, smentendo alla radice tutti gli allarmismi (a cominciare da quello occupazionale) che il Fronte del No ha diffuso per cercare di boicottare una scelta democratica. Subito dopo, il 7 maggio a Roma, la società civile si mobiliterà contro il negoziato transatlantico, il Ttip, con l’obiettivo di bloccare un accordo che sarebbe rischioso per il tessuto economico e sociale del nostro Paese. La COP21 a Parigi lo scorso dicembre, il referendum sulle trivelle del prossimo 17 aprile, la manifestazione nazionale Stop TTIP di Roma il 7 maggio. C’è un filo rosso che lega una società civile che sta ripartendo e che chiede, a gran voce, che si cambi definitivamente rotta e modello di società.

L’articolo originale può essere letto qui