La vittoria elettorale di Syriza alle elezioni greche è stata salutata da molti, in tutta Europa, come il segno della riscossa degli strati sociali maggiormente colpiti dall’austerità e dei paesi mediterranei nei confronti dei creditori tedeschi.

Il partito di Syriza, nato come assembramento di diverse forze, è riuscito a catalizzare un ampio consenso attorno a un programma che può essere riassunto in un semplice slogan: euro (ed Unione Europea) sì, austerità no”. Ci si proponeva di bloccare le politiche che hanno devastato la Grecia in tutti questi anni, imposte dalla Troika e attuate tanto dal PASOK quanto da Nuova Democrazia. Rifiutando le privatizzazioni, il taglio della spesa, proponendo il salario minimo e alcune rinazionalizzazioni, la Coalizione della Sinistra Radicale mostrava di voler segnare una rottura rispetto ai partiti di governo e ai ricatti della finanza. In questo modo è riuscita a guadagnare rapidamente consenso tra la popolazione greca esasperata dalla dittatura finanziaria. Il programma di Syriza intendeva da un lato porsi in opposizione rispetto al neoliberismo imposto come condizione per ottenere i fondi che evitassero il default, dall’altro permetteva di non affrontare la questione dell’euro, una moneta creata ad arte per gli interessi della finanza internazionale, e dei vincoli dei trattati.

La proposta di Syriza dava voce al malcontento dei greci, senza però disilluderli circa “le magnifiche sorti e progressive” dell’UE e della sua finanza; salvava il “sogno” neoliberale di un’unificazione europea forzata, evitando di schierarsi pericolosamente contro una narrazione mediatica pervasiva. Ma se questa posizione consentiva a Tsipras di guadagnare consenso, lasciava irrisolte delle contraddizioni cruciali. In che modo si intendevano finanziare livelli di spesa nuovamente accettabili per la Grecia, nel contesto dell’eurozona, senza disporre liberamente della finanza pubblica? In che modo si poteva avviare una politica anticiclica, che riducesse la disoccupazione e aumentasse i salari senza deficit di bilancio, così come impongono i trattati europei? Qualsiasi programma, non socialista o di sinistra, ma anche solo vagamente keynesiano, necessita di un aumento del deficit pubblico in una situazione di crisi. Questo non è possibile nella Ue che impone il vincolo del 3% a tutti gli stati, tanto più per la Grecia, da cui la Troika esige addirittura un avanzo primario. Invece Syriza ha stilato una lista dei sogni, un programma che, in ogni caso, è molto moderato, come lo ha definito il deputato dissidente di Syriza Costas Lapavitsas, ma senza preoccuparsi di creare le condizioni per rendere possibile la sua attuazione.

Il partito di Tsipras ha ottenuto alle elezioni una grande vittoria politica. Non ha saputo, però, tradurla in una vittoria sociale dei lavoratori e della piccola e media borghesia espropriati dalle banche, e in un trionfo nazionale per l’indipendenza di un popolo dalle potenze straniere. Si è limitato a esprimere il malessere e a raccogliere le proteste dei greci, ma non è riuscito a rielaborarle in una proposta politica credibile e realizzabile. Il referendum greco è stato forse un tentativo disperato di un governo ormai impotente di uscire di scena con dignità. Ma la vittoria del no ha messo l’esecutivo greco con le spalle al muro, costringendolo a confrontarsi con le proprie responsabilità davanti a una “trattativa” (sarebbe meglio chiamarla resa incondizionata) per forza di cose drammatica per la Grecia.

L’accordo impone condizioni pesantissime al paese, che assomigliano molto per la loro durezza a quelle imposte ad un paese sconfitto in guerra. Privatizzazioni, tagli sulle pensioni, aumento delle tasse. Il tutto in cambio di fondi che serviranno solo a pagare i debiti bancari e di cui i cittadini greci non beneficeranno minimamente. Si può accusare l’Europa, prendersela con l’intransigenza della Germania, della UE, della finanza, i quali, chissà per quale motivo, avrebbero dovuto diventare ciò che non sono mai stati e trasformarsi in entità solidali e partecipi dei destini del popolo ellenico. Ma la realtà è che gran parte della responsabilità ricade sul governo e sul partito di maggioranza, che non ha saputo sfruttare l’occasione offertagli dai rifiuti della Troika a proposte già molto penalizzanti. È vero che nel programma elettorale non era prevista l’uscita dall’euro, ma l’inflessibilità della controparte avrebbe più che giustificato un cambiamento di strategia e il ritorno alla dracma. L’esecutivo greco, invece, si è arenato in una estenuante trattativa dalla quale, come è risultato chiaro fin da subito, non avrebbe potuto ottenere nulla.

Ora Tsipras si trova a dover far digerire ai suoi elettori un ulteriore rincaro dell’austerità, tradendo clamorosamente le promesse, e affrontare l’opposizione interna del suo partito che rischia la scissione. La piattaforma sulla quale è stata costruita Syriza, ovvero fine dell’austerità rimanendo nell’eurozona e nella UE, ha fallito miseramente. L’Europa di Maastricht si dimostra ancora una volta, semmai ce ne fosse stato bisogno, irriformabile. Ad essa non c’è alternativa che la sua demolizione. L’inettitudine della sinistra europea che si ostina a non voler comprendere questo fatto essenziale potrebbe portare al ripetersi di situazioni analoghe a quella greca. La Spagna e PODEMOS sono avvisate.