Con l’attribuzione di 29 seggi sui 120 della Knesset, il Likud di Benjamin Netanyahu si è assicurato a sorpresa la vittoria nelle elezioni parlamentari in Israele. All’indomani del voto, si apre ufficialmente il ‘ballo’ delle consultazioni per la formazione di un governo di coalizione: La MISNA ne ha parlato con Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies (Igs) e della rivista Geopolitics of the Middle East.

Cosa ha determinato a suo avviso questa vittoria per molti versi inattesa rispetto ai pronostici?

In realtà Netanyahu ha sempre dominato la campagna elettorale. Solo nelle ultime settimane la crescita di Isaac Herzog e dell’Unione Sionista ha creato l’impressione che la competizione si sarebbe trasformata in un testa a testa. A far vincere il leader del Likud è stata la retorica della paura, la strategia dell’allarme continuo, dell’emergenza e della minaccia esistenziale. Il primo ministro ha alimentato una psicosi nazionale e una percezione della paura simile a quella degli anni ‘60. Con la differenza che allora la minaccia era reale, da parte di paesi arabi pronti a entrare in conflitto con lo stato ebraico, mentre oggi non lo è a meno che non si voglia pensare che un futuro stato palestinese – semmai vedrà giorno – potrebbe mettere in serio pericolo uno dei paesi più militarizzati al mondo. Quanto alla minaccia iraniana, altro cardine della campagna di “Bibi”, il negoziato con gli Stati Uniti dimostra che non è fondata. In questo momento Israele sembra vittima di quella che alcuni definiscono la “Sindrome di Masada”, dall’assedio della fortezza nella Giudea sud-orientale: il premier ha favorito la sua vittoria riunendo gli elettori attorno alla percezione di una minaccia per la loro stessa sopravvivenza.

Che conseguenze avrà questa “politica della paura”?

Non solo avrà conseguenze sul piano politico e diplomatico, ma contribuirà ad approfondire una spaccatura – già in atto – tra Netanyahu e l’apparato militare e di Intelligence. Da mesi ormai i vertici di questi settori hanno fatto capire di non condividere le scelte e le posizioni del primo ministro. Gli ex generali fuoriusciti lo hanno detto chiaramente in una serie di interviste alla stampa israeliana. Temo che non potendo tollerare un atteggiamento così ostile nei suoi confronti, il premier opererà per cambiare i vertici della sicurezza, innescando tensioni anche più forti di quelle osservate finora.

Passata l’ebbrezza dei risultati bisognerà mettersi al lavoro per formare un nuovo esecutivo. Come si muoverà ora Netanyahu?

Ora il suo problema principale sarà quello di trovare e soprattutto mantenere alleati in una coalizione. È probabile che in questa ricerca Netanyahu guardi ai partiti ultraortodossi e dell’estrema destra di Avidgor Lieberman (Israel Beytenu) e Naftali Bennett (Bayit Yehudi) , ma corre il rischio di rimanere intrappolato in dinamiche di ingovernabilità simili a quelle che lo hanno portato alle elezioni anticipate. Apparentemente Netanyahu desidera includere nel nuovo esecutivo anche Moshe Kahlon, il leader del partito Kulanu che si batte per l’emancipazione delle masse popolari e ha ottenuto 10 seggi. Col suo sostegno il premier potrebbe formare una coalizione di 67-68 deputati con cui affronterebbe la nuova legislatura con pieno controllo del parlamento. Se anche l’accordo di governo con questi partiti dovesse reggere, tuttavia, il rischio è quello di alimentare nuove e profonde divisioni all’interno della società. 

A cosa si riferisce di preciso?

Nella sua campagna elettorale, Netanyahu ha taciuto completamente sui temi sociali, che pure sono molto sentiti dai giovani e dalla classe media. Al contempo ha promesso ampie concessioni ai settori ultraortodossi della popolazione, in tema di sussidi e aiuti, che ora dovrà mantenere, soprattutto se si alleerà con partiti che sono espressione di quest’elettorato. Questo, a mio avviso, rischia di creare nuove spaccature nel composito tessuto sociale israeliano.

La coalizione Lista Araba Unita, una delle novità di queste elezioni, ha ottenuto 14 seggi, diventando la terza forza in Parlamento. È un segnale positivo per gli arabi-israeliani?

È indubbiamente un fattore di novità, ma bisognerà attendere per capirne la portata. Tutto dipende dall’abilità di Ayman Odeh e degli altri dirigenti di maturare un progetto politico solido e una visione di lungo periodo. E soprattutto dalla capacità di restare uniti e esercitare un ruolo di opposizione credibile e costruttivo.