14 novembre 2014 – Settimana di forte ribasso per il petrolio in tutti i mercati mondiali. Il prezzo dei principali marchi, Brent e WTI (West Texas Intermediate, ndr) è al livello più basso dal settembre 2010 con un chiusura a 74 dollari e 21 centesimi. Il crollo in atto dipende largamente dal calo della domanda internazionale associato alla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione e dall’aumento esponenziale della produzione Usa di Shale Oil, il greggio ottenuto dal fracking delle scisti bituminose. Già stamane alla Borsa di Londra il prezzo del Brent era sotto i 77 dollari al barile. Il costo del petrolio WTI, scambiato a New York è sceso poi fino a 73,82 con un picco al ribasso che non accadeva dal 1986. Il WTI perde valore per la settima settimana consecutiva, mentre il Brent è ai minimi delle ultime 8 settimane.

La notizia ‘fa bene’ all’economia mondiale e quel po’ di ripresa che c’è nell’aria dipende proprio dalla caduta del costo dell’energia che si basa largamente tuttora sul petrolio. La caduta ha insomma un effetto anticiclico per l’insieme dell’economia mondiale, ma ha anche pesanti riflessi negativi su alcuni Paesi che basano i loro bilanci statali quasi interamente o del tutto proprio sull’esportazione del greggio e anche del gas il cui prezzo è collegato direttamente a quello del barile. Problemi dunque per i Paesi esportatori del Golfo Arabico, come per il Venezuela o il Messico, ma i guai veri sono per la Russia che basa il suo export proprio sul petrolio e sul gas e che ha un breakpoint di venti dollari più alto della quotazione odierna. Insomma il bilancio russo ha messo in conto di incassare parecchi miliardi di dollari di più di quelli che effettivamente può ottenere e se a questo si aggiunge la pressione internazionale delle sanzioni scattate dopo l’invasione della Crimea e la semi invasione di parte dell’Ucraina, si ha la percezione dei brividi che corrono al Cremlino e che non sono dovuti all’abbassarsi della temperatura. Col crollo del petrolio, crollano anche le sfrenate ambizioni di Putin e le sue minacce di chiudere i rubinetti del gas prima all’Ucraina e poi all’Europa, rischiano di apparire come una fanfaronata e così l’Orso russo può svelarsi per quello che è: una tigre di carta.

Alla vigilia del G20 di Brisbane, Putin fa finta di nulla e minimizza le difficoltà e all’agenzia di stato Tass ha rivelato che si tiene pronto a un calo “catastrofico” dei prezzi, anche se ha rassicurato che la Russia potrà farcela lo stesso, grazie a un cuscinetto di riserve di 400 miliardi di dollari. Un cuscinetto che però non può durare all’infinito, che ha perso 30 miliardi in una settimana ed è destinato a diminuire ancora  più rapidamente per il deprezzamento,  -30%, del rublo.

Sul crollo dei prezzi del petrolio, che sta mettendo in serie difficoltà la Russia, secondo produttore mondiale, Putin si dice tranquillo anche dopo l’appello di Igor Sechin, il numero uno della compagnia, che ha chiesto al governo 45 miliardi di dollari per poter affrontare il pesante fardello di un debito che ammonta a 55 miliardi di dollari. Un fardello su cui pesa non solo il petrolio, ma anche l’impatto delle sanzioni americane ed europee.

“Se fossi l’amministratore delegato della Rosneft (l’equivalente russo dell’Eni ndr) – risponde alla Tass – avrei anch’io chiesto soldi. Perché no? Chi è che non ne chiede ora? Tutti chiedono denari e sperano di riceverli”. Igor Sechin, il numero uno della compagnia, è sotto pressione anche a causa delle sanzioni imposte dagli occidentali e ha chiesto al governo 45 miliardi di dollari per poter affrontare il pesante fardello di un debito che ammonta a 55 miliardi di dollari su un fatturato annuo che nel 2012 era di 102 miliardi.

“Il governo – ha aggiunto Putin – prenderà le sue decisioni non solo tenendo conto delle esigenze della compagnia, che noi riteniamo preziosa e che aiuteremo senza dubbio. Vedrà anche l’attività pratica e come investirà e quali benefici all’intera economia nazionale verranno da questo investimento. Sarà una valutazione tangibile e non escludo che Rosneft possa ricevere alcuni fondi, ma la dimensione, l’ammontare e i termini saranno valuta in maniera minuziosa e la fretta su questo tema è esclusa”.

La IEA (Internation Energy Agency) stima un calo della domanda di petrolio dell’1% nel primo trimestre del 2015.  L’Agenzia calcola che l’OPEC dovrebbe produrre ogni giorno mediamente 29,6 milioni di barili nel 2014 e 29,2 milioni nel 2015, per mantenere il mercato in equilibrio. Al contrario, la produzione in ottobre si è attestata a 30,6 milioni di barili, 500 mila in più al giorno in media per il trimestre in corso e ben 1,8 milioni di barili in più al giorno, stando al fabbisogno dei primi tre mesi dell’anno prossimo. Nel frattempo, infatti, i Paesi non-OPEC hanno aumentato la loro produzione di 2 milioni di barili al giorno a 57,1 milioni, con gli USA a 8,9 milioni e nessuno vuole tagliare l’estrazione per non perdere quote di mercato. Una guerra del barile insomma che per ora va a vantaggio dei consumatori, che potrebbe aiutare la ripresa rilanciando la produzione e i consumi e riportando alla fine il sistema in equilibrio.

Di Armando Marchio

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