Dai cellulari alle cellule fotovoltaiche, dalle telecamere ai computer, senza di lui nessuno congegno informatico potrebbe funzionare. Stiamo parlando del coltan, un minerale, anzi una combinazione di minerali, columbite e tantalite, essenziali per ottimizzare il consumo di corrente elettrica nei chip di nuova generazione.

 

Il 60% del coltan utilizzato a livello mondiale proviene dalla Repubblica Democratica del Congo. Più precisamente dal Kivu, una regione a ridosso del Ruanda e del Burundi, in parte bagnata dal lago Tanganica. Una zona di grandi bellezze naturali, ma diventata famosa per i suoi scombinati conflitti armati. Decine di gruppi armati si contendono il controllo del territorio. Quali al servizio di capi locali particolarmente ambiziosi, quali al servizio di potenze straniere. Ma tutti con lo stesso obiettivo: controllare le immense ricchezze minerarie che la regione contiene. In particolare il coltan. Ed ecco la popolazione ovunque terrorizzata e costretta a lavorare nelle miniere, per estrarre i minerali che la banda militare occupante venderà ai trafficanti specializzati nell’esportazione di contrabbando. Dalla regione esce coltan e rientrano armi. Perché i proventi della vendita del minerale servono proprio a questo: a pagare soldati e armi che tengono in piedi i gruppi armati .

 

Non di rado i lavoratori sono bambini che grazie ai loro corpo esili entrano meglio nelle strette buche da cui si estraggono le pietre che contengono il coltan. I loro salari non arrivano al dollaro al giorno sempre che non si tratti di piccoli schiavi comprati o rapiti alle loro famiglie.

 

Tutti conoscono le condizioni di violenza e di illegalità in cui si estrae e si commercializza il coltan. Ma nessuno parla per non compromettere gli interessi dei vari affaristi che si collocano in punti diversi della filiera: g ruppi paramilitari, trafficanti locali, multinazionali della metallurgia e dell’elettronica, organizzazioni criminali internazionali .

 

Solitamente il minerale estratto in Congo è esportato di contrabbando in Rwanda, Uganda, Kenya, dove è caricato su aerei diretti alle imprese metallurgiche europee. Anni or sono le Nazioni Unite accertarono la consegna di 75 tonnellate di coltan alla ditta tedesca Masingiro GmbH, con probabile destinazione finale lo stabilimento della H.C. Starck, filiale di Bayer, leader mondiale del settore.

Altre volte il minerale è trasportato nei porti di Tanzania e Kenya con destinazione Malesia, Indonesia, Thailandia, Cina. Dopo un passaggio negli stabilimenti di raffinazione, i metalli estratti sono poi avviati al variegato mondo dell’industria informatica che comprende Samsung, Intel, Microsoft, Motorola, Sony, IBM, Apple.

Un modo per porre fine al traffico illegale di coltan è responsabilizzare le imprese che si trovano nella parte finale della filiera. Se le imprese manifatturiere fossero costrette a esporre pubblicamente tutti i passaggi seguiti dai loro minerali, dall’estrazione all’ingresso nei loro stabilimenti, di sicuro non userebbero più il coltan proveniente illegalmente dal Congo. Di conseguenza il traffico si esaurirebbe per mancanza di mercato.

Un provvedimento in tal senso è già stato preso negli Stati Uniti e dovrebbe entrare in vigore nel maggio 2014. Più precisamente le società quotate in borsa dovranno pubblicare un rapporto di tracciabilità dei cosiddetti «minerali di guerra», per informare il consumatore se l’oro, lo stagno, il tantalio e il tungsteno utilizzati nei loro prodotti provengono da zone devastate da conflitti.

Sull’onda della pressione internazionale anche l’Unione Europea è stata costretta a progettare una normativa analoga, ma la direttiva allo studio non lascia sperare niente di buono. Per cominciare, benché le imprese europee che utilizzano i minerali critici siano decine di migliaia, Bruxelles insiste per una normativa che riguardi solo le 400 imprese importatrici. Ma il peggio è che non sono previsti obblighi vincolanti, ma solo esortazioni ad attuare volontariamente la trasparenza. Una scelta, sottolinea la Rete Europea per l’Africa Centrale, che contravviene all’indicazione fornita nel febbraio 2014 dal Parlamento europeo, che tra l’altro chiede di estendere l’obbligo di tracciabilità a tutte le imprese che usano minerali critici.

Ancora una volta l’Europa gioca al ribasso e posta di fronte alla scelta se difendere la dignità della persona o gli affari delle imprese, sceglie quest’ultimi confermando che in Europa il vero potere è in mano alle lobby.