A Bamako, lo chiamano “ il cantiere di Banconi”, dal nome del quartiere popolare sorto negli anni Settanta alla periferia della città. Vi si trovano una scuola, un dispensario sanitario, una moschea ultramoderna e un palazzo di quattro piani la cui entrata è protetta da guardie del corpo e da un’entrata di sicurezza che cela la sede di Ançar Dine (da non confondere con Ansar Eddine, l’organizzazione di Iyad Ag Ghaly, capo dei MUJAO), associazione fondata da Chérif Ousmane Madani Haïdara, l’imam più celebre del Mali.

Haïdara, da molti soprannominato il “ mouride maliano” e che i suoi fedeli chiamano Nyemogo (“la Guida”), è considerato “la principale alternativa islamica” al wahhabismo e “il nemico storico dei sunniti riformati” (altro appellativo dato ai wahhabiti), secondo Gilles Holder, ricercatore di studi africani (CEAf).

In Mali come in tutta la sub-regione, l’avanzata di un Islam rigoroso venuto dalla penisola arabica o dall’Egitto e che giudica eretiche le confraternite e le pratiche ancestrali dei marabutti sembra ormai un processo irreversibile.

Secondo Holder, Haïdara è un riformista, ma resta fedele ai riti malinké e rivendica un Islam integrato nella cultura dell’Africa occidentale. Infatti egli prega in Bambara (lingua autoctona del Mali) ogni anno nello stadio Modibo-Keïta a Bamako, di fronte a decina di migliaia di adepti e dice: “Noi siamo per un Islam tollerante, siamo contro il wahhabismo”. E’ un uomo che si esprime in modo semplice e diretto e accusa i difensori del wahhabismo a Bamako di avere “dei legami” con i gruppi islamici armati che stanno seviziando il nord del Mali, praticando la violenza e imponendo la Sharia. Quest’uomo che rivendica 1.2000.000 fedeli nel mondo sostiene che i wahhabiti non rappresentano che il 10% dei musulmani del Mali – cifra impossibile da verificare e che la controparte contesta- anche se deve ammettere che diventano ogni giorno più numerosi.

Il radicamento di questa corrente dell’Islam “venuto da fuori” non è recente. E’ iniziata a metà del XX secolo attraverso i commercianti “dioulas” che operavano tra l’Africa occidentale e il Golfo Persico e con il ritorno dei primi studenti dall’università di Al-Azhar del Cairo. Il movimento si è intensificato negli anni Settanta-Ottanta quando, sotto la copertura degli aiuti umanitari, l’Arabia Saudita ha creato (nel nord del Mali) ONG che mediante la costruzione di dispensari e di scuole hanno promosso la diffusione del wahhabismo. Questa dottrina inoltre ha beneficiato delle incessanti competizioni tra i movimenti malekiti (o sufi) che ne hanno indebolito i seguaci.

Da allora è un duello senza esclusione di colpi tra i riformisti e i sostenitori del sufismo come Haidara e i suoi seguaci. Quest’ultimo, che pare sostenuto dall’Iran, dispone di una radio e le sue preghiere registrate inondano il paese. Ma ciò è ben poca cosa se comparato alle risorse dei wahhabiti, finanziati dai paesi del Golfo, con moschee in crescita, una situazione sociale critica che attira gli emarginati verso la fede e una figura di popolare di spicco quanto quella di Haidara, Mahmoud Dicko.

Quest’ultimo ha giocato un ruolo molto importante nella campagna elettorale mailiana. L’imam della moschea sunnita riformata di Badalabougou (quartiere borghese di Bamako) è l’altro predicatore alla moda nel paese: è anch’egli capace di riunire decine di migliaia di persone e dal 2008 è alla testa dell’Alto Consiglio Islamico del Mali (HCIM), una struttura di interfaccia tra le associazioni religiose, le moschee e le autorità del paese. Holder definisce questo consiglio “un partito dell’slam” e ha le sue buone ragioni: nel 2009 mobilitando i suoi seguaci Dicko ha piegato il governo del Mali che voleva adottare un codice di famiglia progressista. Nel 2011 ha imposto il segretario dell’Alto Consiglio del Mali a capo della Commissione elettorale indipendente. Nel 2012 fu sospettato di voler costruire ponti verso gli Jihadisti armati del nord e ha ottenuto dal governo di transizione la creazione di un Ministero degli affari religiosi. Nel 2013 ha giocato un ruolo attivo nella campagna elettorale e anche se non ha preso ufficialmente posizione per sostenere un candidato, ha permesso che la sua famiglia e che numerosi Iman suoi seguaci sostenessero l’attuale presidente Ibrahim Boubacar Keïta (IBK).

Le sue dichiarazioni ambigue sulla sharia, le sue prese di posizione a favore di una Repubblica Islamica, i suoi antichi legami con Iyad Ag Ghaly, il leader del movimento islamico Ansar Eddine, fanno di Dicko un personaggio controverso.

Per contrastare la sua influenza Haïdara ha lanciato nel 2011 il Raggruppamento dei leaders spirituali musulmani del Mali, il cui obiettivo è l’unione dei sostenitori dell’Islam malékita. Dicko cavallo di Troia del sunnismo riformato del Mali? “Questo è ciò che dicono i miei detrattori” risponde semplicemente Dicko. Originario di una grande famiglia di maraboutti di Timboctou, si trova presto di fronte ad un grande dilemma: seguire l’esempio del nonno, che apparteneva alla confraternita Tidjane? (di stampo salafita), o quello del padre, che pregava con le braccia incrociate sul petto come i wahhabiti? Dopo aver frequentato una moschea wahhabita a Bamako e aver studiato in Mauritania e in Arabia Saudita, sceglie definitivamente la via wahhabita; secondo lui la penetrazione del sunnismo riformato (salafismo) nella morale così come in politica è inevitabile.

L’antropologo Moussa Sow sostiene che in Mali si sta vivendo “una sorta di arabizzazione” e che quando lui era piccolo nessuno incrociava le braccia per pregare alla moschea. “Ora invece è di uso comune; inoltre a quell’epoca la preghiera del venerdì era importante, mentre ora è sacra”. Nel 1960 c’erano 40 moschee a Bamako, mentre ora sono più di mille.

Grandi predicatori in questi ultimi tempi hanno affermato il loro potere in Mali, come Dicko ed Haidara, approfittando del vuoto lasciato dallo stato nel campo della sanità e dell’istruzione; a poco a poco i discorsi più radicali diventano i più diffusi soprattutto in ambito urbano. Il Mali sta andando verso un Islam nazionalista… e tutto ciò di fronte agli occhi inermi dell’Occidente, troppo impegnato a risolvere le proprie crisi economiche per intervenire in modo efficace.