La fatica dei profughi siriani – Foto: Bernardi

REYHANLI (Turchia): La piccola stazione degli autobus di Reyhanli non è mai stata così affollata. Del resto questa polverosa cittadina del Sud della Turchia non ha niente di affascinante da mostrare se non che da oltre un anno è diventata una piccola colonia siriana. Negli spartani ristoranti che si snodano lungo la strada principale è quasi impossibile non trovare siriani che vi lavorano. Da quando la guerra civile ha costretto a fuggire milioni di persone, il numero degli abitanti della città è raddoppiato. Ad oggi, stando ai numeri più recenti, ci sono circa 65mila turchi e 60mila siriani. Un appartamento di 100 metri quadrati, senza forniture, costa all’incirca 300 lire turche (100 Euro), mentre nella vicina Antakya il prezzo raddoppia. Il confine di Bab al-Hawa, Cilvegozu per i turchi, è a 5 minuti di auto e Reyhanli è una tappa forzata sia per chi entra che per chi esce dalla Siria.

Attorno al centro cittadino si snodano una serie di palazzi e case in costruzione. La maggior parte della manovalanza è siriana. Le case in costruzione con le finestre tappate da nailon sono quelle abitate dai siriani che non possono affrontare il costo di un affitto regolare. Normalmente, l’accordo con il proprietario è temporaneo e la cifra per la casa senza intonaci, pavimenti, porte e finestre si aggira attorno alle 200 Lire turche (65 Euro). All’interno ci vivono solitamente dalle dieci alle, venti, venticinque persone. Due, tre, in alcuni casi anche quattro famiglie ammassate da mesi e con poca speranza di un futuro immediato migliore.

La casa di Mohammed, un magro uomo di 50 anni, è dietro la moschea nella parte Nord di Reyhanli. Alcuni grandi tappeti sbiaditi coprono la colata di cemento sotto ai suoi piedi. Fuori dalla porta principale, realizzata con quattro assi di legno e un telone azzurro, c’è una distesa di scarpe a indicare il numero di persone che vi alloggiano. Prima che il caos lo costringesse a fuggire da Hesh, un villaggio tra Maaret al-Numan e Hama, faceva il tassista. Ma oggi la sua auto è distrutta sotto le macerie della casa che non ha retto alle bombe degli aerei governativi. “Qualche giorno fa”, racconta l’uomo mentre sta seduto su un sottile materasso fumando una sigaretta dopo l’altra “ho visto un video su internet del mio villaggio. È completamente raso al suolo, non è rimasta neppure una casa in piedi”. La faccia si fa seria e gli occhi sono persi in un punto vuoto della spoglia stanza riscaldata da una piccola stufa elettrica: “Sono fuggito più di un anno fa con mia moglie ed i miei otto figli. Prima ci siamo accampati in una tenda dell’UNHCR in un oliveto nella zona di Jabat al-Zawia, ma quando il rumore delle esplosioni ed il fischio dei proiettili si sono avvicinati siamo fuggiti in Turchia.”. Non paga nessuna affitto e come tanti altri profughi attorno a lui ricava acqua e corrente grazie ad un allaccio illegale alla rete idrica ed elettrica della città. Ma la Turchia, che ospita oltre 500mila rifugiati siriani (molti di più considerando che molti non hanno documenti e non sono registrati con le autorità) non è il paradiso: “Pensavamo fosse semplice vivere in Turchia ed invece i soldi non bastano mai. Ogni tanto alcune ONG portano dei buoni per fare la spesa gratis in un supermercato, ma sfamare dieci persone non è facile. Abbiamo bisogno di latte in polvere per i bambini piccoli e non è facile trovarne da queste parti”. Mentre uno dei suoi otto figli arriva da scuola saltando in casa da una finestra, Mohammed pensa che “sarà Dio ad aiutarli”.

Di fronte alla casa di fortuna del signor Mohammed c’è un piccolo garage. La serranda rugginosa è abbassata a metà e alcuni bambini entrano ed escono. Ci vive Abu Hamsi, un sessantenne arrivato a Reyhanli ad aprile. Lui, prima che la Siria divenisse il campo di battaglia di una lunga e sanguinosa guerra civile lavorava negli uffici governativi del suo villaggio. Arriva dalla provincia di Idlib ed è il terzo garage che occupa. Dopo sei mesi di permanenza anche da questo tugurio dovrà presto uscire: “il proprietario – racconta – è venuto a dirci che dobbiamo andarcene”. Degli undici membri della famiglia solo Ahmad, il figlio trentenne, lavora. I soldi che porta a casa da lavoretti saltuari in giro per la città devono bastare per tutti. Quando in Siria la guerra era ancora chiamata “rivoluzione” Abu Hamsi supportava i ribelli che combattevano contro il presidente Bashar al-Assad. Dopo tre anni di stenti, una casa distrutta e tutti i propri beni andati, ha perso la speranza e dice di non credere più in nessuno se non in “Dio”. Abu Hamsi ha anche un po’ di ironia, che serve per sdrammatizzare la triste realtà: “i palestinesi che furono cacciati dalle loro case hanno avuto la fortuna di potersi portare dietro le chiavi. A noi non sono rimaste neppure quelle. Tutto è bruciato sotto le bombe degli aerei”, dice ridendo e imitando con la mano destra la picchiata che i MIG fanno quando scendono a sganciare una bomba. “Inshallah”, se Dio lo vuole, dice “questa umiliazione che vivo ogni giorno prima o poi finirà e potrò tornare in Siria”.

Fuori dal garage di Abu Hamsi c’è Mohammed Hammad Kizawi, un signore che per 31 anni ha servito nell’Esercito del presidente Bashar al-Assad. Anche lui arriva dalla provincia di Idlib e oggi passa le sue giornate a sorseggiare tè e fumare sigarette nella speranza prima o poi di tornare in Siria. La sua casa è al primo piano di una palazzina in costruzione. Gli inquilini dei piani superiori sono amici e parenti. Fino a due anni fa era di stanza a Homs ma racconta orgoglioso che “in una fredda mattina di febbraio”, mentre stava tornando alla sua base in macchina, “un carro armato ha puntato il suo cannone contro una giovane donna che camminava sul ciglio della strada con il suo piccolo tra le braccia”. Mohammed sapeva che quel carro armato apparteneva al suo reggimento. Racconta che quel gesto lo ha così infastidito da convincerlo a disertare: “Ho girato la macchina, guidato per un po’, mi sono cambiato l’uniforme con vestiti civili e sono andato a prendere la mia famiglia”. Dopo due giorni era in Turchia, nel campo profughi di Urfa. Non ha nessun tipo di documento con se e ha lasciato il campo profughi di Urfa allestito dal Governo Turco perché uno dei suoi figli combatte in Siria nelle file di quello che resta dell’ESL (Esercito Siriano Libero), nella città di Darkush, che in questi giorni sta resistendo alle auto bombe dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. Così, quando il figlio lo chiama, si incontrano per un caffè nella piccola città di Hacipasa dove i ribelli soliti combattere a Darkush attraversano illegalmente il volatile confine con la Turchia per riposare. La sua casa non è gratuita. Paga 200 Lire turche al proprietario (65 Euro) ma si sente comunque “fortunato” a non aver mai ricevuto alcun avviso di sfratto.

Nama è una anziana signora di Idlib che vive al secondo piano della stessa casa in costruzione di Mohammed. Suo marito è anziano e ogni mattina una macchina medica passa a portare medicine e visitare il paziente. A 70 anni si è trovata a dover fare da madre una altra volta. Il figlio trentenne era nella Polizia. Due anni fa, l’ultima volta che ha parlato con lui, gli aveva detto che presto avrebbe disertato e sarebbe fuggito. Ma probabilmente qualcosa è andato storto e Nama non lo ha più rivisto e sentito. I suoi due figli, di 7 e 9 anni, la cui madre è morta per cause naturali un anno fa, vivono oggi con la nonna che nonostante l’età lavora come “donna delle pulizie” in alcune case di turchi della città. “È difficile crescerli e le difficoltà sono molte ma provo a nascondere questi problemi ai bambini, sperando che possano crescere senza problemi”, racconta mentre scalda uno scarso pranzo a base di uova e formaggio. “È successo più di una volta”, dice la signora, “che non avessimo abbastanza cibo in casa. Quando questo succede e i bambini cominciano a risentirne vado a chiedere cibo alle famiglie turche che vivono nei dintorni”. Il sogno, anche per Nama, è quello di poter tornare in Siria. Non sa quando, e neppure dove, visto che la sua casa è un cumulo di macerie. Ma dice che quello è il suo Paese e prima o poi, Inshallah (se Dio lo vorrà), ci tornerà.

Andrea Bernardi