Marzo 2013 ha registrato il maggior numero di vittime in Siria. Oltre seimila persone hanno perso la vita, sebbene il dato resti parziale; ribelli e regime, infatti, non forniscono numeri, né identità delle vittime tra le proprie file.
Tanto più che molti combattenti dell’esercito siriano libero sono stranieri.

E’ certo invece il dato sui civili, duemila sono stati assassinati a marzo: 300 bambini e altrettante donne.

In quasi due anni di questo conflitto condotto da molteplici attori su un campo dove si soddisfano i propri interessi, oltre settantamila persone sono morte in Siria.

Durante il Summit della Lega Araba svoltosi pochi giorni fa, i leader arabi hanno manifestato tutta la retorica del caso: Bashar al-Asad ha ricevuto ancora la condanna e la totale negazione politica.
Proclamando il diritto di ciascuno dei Paesi presenti all’incontro di fornire qualunque tipo di assistenza e supporto al popolo siriano (i ribelli) nel nome dell’autodifesa, è stato chiaro di come l’occasione del Summit sia stata utile ad altri e non si sia discussa una genuina risoluzione per il bene della Siria.

Si è confinato ulteriormente il regime siriano, si è esclusa qualunque possibilità di negoziato con esso e si è conferita nuova legittimità a un’opposizione che stenta a decollare politicamente, ma che nel frattempo può presentarsi al mondo come il rappresentante del popolo siriano legittimo perché autorizzato.

Dopo aver neutralizzato ogni possibilità di intervento internazionale e pubblico per una soluzione siriana, all’orizzonte si intravedono solo molte vie unilaterali.
Sono quelle che rispecchieranno gli interessi dei singoli Paesi, Golfo in testa, impegnati a rincarare la dose di “assistenza militare”, mentre la Siria viene frammentata e indebolita  come realtà statale indipendente.

Erogati sotto la supervisione della comunità internazionale quest’assistenza, proveniente anzitutto da Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, essa giunge direttamente nelle mani dei ribelli. A rendere possibile il trasferimento sono le alleanze tribali sui rispettivi confini, ufficialmente inaccessibili alle Nazioni Unite.

La Turchia respinge la massa di rifugiati, ma aumenta il proprio sostegno militare ai ribelli che avanzano ad Aleppo, il cui destino è considerato risolutivo per abbattere questo regime.

Travestita da assistenza umanitaria, l’azione a carattere militare allontana qualunque prospettiva di una risoluzione politica multilaterale in Siria.