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Il nono e, prima del previsto decimo di venerdì 19 Aprile, ultimo round negoziale, convocato a sorpresa dalla mediatrice europea Catherine Ashton, tra la delegazione serba e quella albanese-kosovara per un accordo sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali e l’organizzazione dell’auto-governo kosovaro, si è concluso mercoledì, ufficialmente senza raggiungere alcun accordo, tuttavia, per la prima volta, con un significativo passo avanti sulle questioni più controverse sul tavolo.

Dopo quattordici ore di colloqui a Bruxelles, la stessa Catherine Ashton ha potuto dichiarare che, mentre alla fine del round precedente le distanze tra le parti restavano “sottili, ma profonde”, adesso ha descritto le differenze ancora esistenti che impediscono la firma di un accordo come “sottili, e superficiali”. Proprio per questo, resta aperta una finestra negoziale della durata di alcune ore, prima della riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea, fissata per lunedì 22 Aprile, in cui sarà presentato un rapporto sui progressi della regione nel percorso di avvicinamento all’Unione e in cui si prevede di determinare se la Serbia otterrà finalmente la data ufficiale per l’inizio delle trattative istituzionali per l’integrazione europea.

Sebbene diverse cancellerie (in primo luogo Germania e Gran Bretagna) spingano perché non sia riconosciuta alcuna data, per l’inizio delle trattative europee, alla Serbia senza la sigla di un accordo per la normalizzazione delle relazioni con l’auto-governo kosovaro, un accordo di tale natura, alnetto delle pressioni e dei condizionamenti e purché in linea con i principi del diritto e della giustizia internazionale, rappresenterebbe un punto di svolta nelle relazioni tra le parti. Tutto sta, chiaramente, nei contenuti dell’accordo, nella loro capacità di assicurare pace e stabilità alla regione e diritti e sicurezza alle diverse minoranze nazionali, nonché alla capacità delle due leadership politiche di fare “passare” il contenuto del negoziato presso le rispettive opinioni pubbliche, da ambo le parti assai condizionate da pulsioni ritorsive, nazionalitarie o, esplicitamente, nazionalistiche.

In ogni caso, l’accordo dovrà riguardare la normalizzazione dei rapporti bilaterali e la gestione dell’auto-governo, con specifico riferimento alla tutela dei diritti e alla protezione delle minoranze, in particolare la minoranza serba del Kosovo, concentrata in massima parte nella zona settentrionale, in corrispondenza delle provincie di K. Mitrovica, Zvecan, Leposavic e Zubin Potok. L’accordo non riguarderà né il riconoscimento serbo o internazionale del Kosovo né il processo di adesione ufficiale della regione presso le organizzazioni internazionali e multilaterali, dal momento che lo status giuridico della regione, ad oggi, resta quello sancito dalla Risoluzione 1244 del 1999.

Dopo l’indipendenza auto-proclamata il 17 Febbraio 2008, infatti, il Kosovo è retto da un auto-governo di fatto, la cui giurisdizione non si estende alla parte settentrionale a maggioranza serba; mentre l’indipendenza, riconosciuta dagli Stati Uniti e da 23 su 28 Paesi Membri dell’Unione Europea (tutti tranne Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro), non è riconosciuta da altri membri del Consiglio di Sicurezza, come Russia e Cina, e da numerosi (circa cento) altri Paesi, cosicché, di conseguenza, non è riconosciuta dalla Comunità Internazionale nel suo insieme.

Tuttavia, il nono round negoziale-e, auspicabilmente, il successivo, decimo round, già in predicato-può rappresentare, forse per la prima volta dall’inizio delle trattative, un reale passo avanti. Le due parti hanno infatti concordato il principio generale che ai serbi-kosovari, organizzati in una Unione di Comuni Serbi del Kosovo, sia riconosciuta una autonomia sostanziale in cambio del riconoscimento implicito dell’autorità dell’auto-governo kosovaro su tutte le questioni di interesse generale. Le aree in cui si dovrebbe sviluppare l’autonomia e, quindi, l’auto-determinazione, della comunità serbo-kosovara sarebbero quelle della polizia, della giustizia e dei servizi fondamentali.

Vi sarebbe, in particolare, un comando regionale autonomo della polizia kosovara, a direzione serbo-kosovara e con una composizione del corpo proporzionale alla composizione etnica della parte Nord; vi sarebbe una migliore organizzazione della giustizia ed una autonoma giurisdizione serbo-kosovara nella stessa parte; vi sarebbe un regime di protezione delle istituzioni e del patrimonio culturale della comunità serbo-kosovara, in particolare del Nord. Si tratta di una serie di presupposti, in parte già esplicitati all’interno del Piano Athisaari, ma che in questa fase, per la prima volta, sono stati sottoposti a negoziazione e che, dunque, mai come in questa fase, sembra possibile conseguire.

La posta in gioco non è tanto il“principio” della autonomia da garantire alla minoranza serba, bensì la “quantità” della autonomia da accordare a questa parte; di conseguenza, nell’ambito di un accordo potenziale, le strutture comunali serbe nella zona Nord (che potrebbe essere estesa ad altre municipalità o enclavi a maggioranza serba disseminate all’interno del Kosovo albanese) dovrebbero conseguire maggiore autonomia nella definizione, gestione ed organizzazione della giustizia e dei servizi, in particolare quelli più vicini ai bisogni dei cittadini, come la sanità e l’istruzione, aspetti da cui dipendono sia la sicurezza delle comunità, sia la preservazione del patrimonio storico e culturale.

La posta in gioco diviene pertanto molto più ampia di una singola“devoluzione”, dal momento che, nella filigrana del riconoscimento dell’auto-determinazione dei serbi del Kosovo, si stagliano anche le questioni della sicurezza e della stabilità della regione, nonché della capacità dell’Unione Europea di articolare il proprio, caratterizzante, “soft power”, di svolgere un ruolo positivo e di avanzare delle proposte costruttive e definire una visione convincente nella strada dell’allargamento.

Quella che si sta svolgendo, e che potrebbe concludersi già all’indomani del decimo, ormai imminente, round negoziale, è quindi una difficile partita a risiko, mediata da un mediatore terzo, sottoposto a notevoli pressioni e condizionamenti, con attori al tavolo che la congiuntura e non la scelta ha imposto, tra i quali non esiste alcuna storica “fiducia” reciproca: Hashim Thaci, premier dell’auto-governo kosovaro, è vituperato dall’opinione pubblica serba come un comandante della guerriglia separatista e terrorista dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK) che ha combattuto la guerra contro i serbi negli anni Novanta; Ivica Dacic, premier serbo, è stato portavoce di Slobodan Milosevic nello stesso periodo, l’opinione pubblica albanese-kosovara non gli perdona alcune interviste e dichiarazioni nelle quali ha esplicitamente affacciato l’ipotesi della spartizione del Kosovo o dello “scambio di territori” tra il Kosovo (settentrionale) serbo e la Serbia (sud-orientale) albanese, e non sono mancate le accuse reciproche durante tutta la fase di realizzazione dei tavoli negoziali.

D’altra parte, i critici, di ambo le parti, verso la possibilità di un accordo, non hanno mancato di fare sentire la propria voce, esprimendo, divolta involta, rabbia, ostilità, frustrazione, risentimento o scetticismo. Il movimento radicale attualmente all’opposizione nel “Parlamento” kosovaro Vetevendosje (Autodeterminazione) si è detto pronto a organizzare prolungate proteste di massa se dovesse emergere un qualunque accordo con la contro-parte serba. L’ufficio di presidenza del movimento ha insistito sul fatto che un accordo rafforzerebbe anziché superare le divisioni etniche.

La tesi da loro sostenuta è quella percui il riconoscimento dell’autonomia dei serbi del Kosovo potrebbe rendere il Kosovo “un’altra Bosnia”, in cui il decentramento istituzionale e la divisione etnica finirebbero con il rendere sostanzialmente impossibile governare. Viceversa, i serbi-kosovari paventano il rischio di finire vittima della spirale di ritorsioni e di violenza della polizia kosovara, in particolare delle famigerate forze speciali denominate ROSU, e lamentano le continue violenze, intimidazioni e aggressioni subite da parte di fanatici, estremisti e nazionalisti albanesi-kosovari.

Oggi, la sicurezza del Kosovo è in capo a circa 5.000 soldati NATO della missione KFOR, mentre le forze dell’amministrazione internazionale ad interim fanno capo, dopo la fine della guerra del 1999, all’UNMIK (Missione ONU per il Kosovo) e dal 2008 all’EULEX (Missione UE per lo stato di diritto). Il livello di integrazione delle due strutture dell’amministrazione internazionale è tuttavia molto controverso e problematico. La missione dell’UNMIK si articola infatti in ben quattro pilastri: il rimpatrio dei profughi e degli sfollati in capo all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’amministrazione locale affidata direttamente alle Nazioni Unite, la costituzione delle istituzioni (statebuilding) all’OSCEe laricostruzione economica all’Unione Europea.

L’obiettivo strategico dovrebbe essere quello di un accordo win-win. Lo sispera. Per la Serbia, un accordo potrebbe facilitare il percorso verso l’integrazione europea e, se raggiunto sulla base di punti di sostanziale autonomia, auto-determinazione e decentramento, garantire pace, stabilità e sicurezza alle comunità serbe nella regione. Per il Kosovo, regione tra le più povere (se non la più povera) d’Europa, con due milioni di abitanti (i serbi sono cento – centocinquanta mila) migliori relazioni con la Serbia potrebbero significare maggiori opportunità internazionali e il miglioramento della propria situazione economica: con una disoccupazione globale stimata al 40%, una disoccupazione giovanile che supera il 50% e l’illegalità, il malaffare e lacorruzione sempre più all’ordine del giorno.