Israele, Palestina e i premi Oscar

Quest’anno l’assoluta novità della candidatura di un documentario realizzato da un regista palestinese rende storica la  cerimonia di consegna dei premi Oscar. Si tratta di “Cinque telecamere distrutte”, diretto da  Emad Burnat, che vive nel villaggio di Bil’in, nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania, insieme al  collega israeliano Guy Davidi.

Come si vestirà un contadino palestinese per sfilare sul tappeto rosso di Hollywood? Por poco non lo abbiamo saputo,  visto che Burnat, sua moglie e suo figlio di 8 anni sono stati trattenuti all’Aeroporto Internazionale di Los Angeles e minacciati di espulsione.  Nonostante avesse con sé l’invito ufficiale dell’ Academy of Motion Picture Arts and Sciences come regista di un documentario candidato all’Oscar, c’è voluto l’intervento di Michael Moore e degli avvocati dell’Academy perché Burnat e la sua famiglia potessero entrare negli Stati Uniti.

“Cinque telecamere distrutte” compete per il premio Oscar con il documentario israeliano “The Gatekeepers”, in cui vengono intervistati sei ex direttori dello Shin Bet, il servizio segreto di sicurezza interna di Israel, una specie di ibrido tra l’FBI e la CIA. I sei intervistati condannano l’occupazione israeliana e l’espansione degli insediamenti.

Si tratta di un notevole caso in cui la vita imita l’arte: mentre le celebrità si riuniscono per il maggior evento  cinematografico dell’anno, il conflitto tra Israele e Palestina raggiunge Hollywood.

Poche ore dopo aver recuperato la libertà, Burnat ha diffuso questa dichiarazione: “Stanotte, arrivato a Los Angeles dalla Turchia, sono stato fermato insieme alla mia famiglia dal Servizio di Immigrazione degli Stati uniti per quasi un’ora. I funzionari ci hanno chiesto il proposito della nostra visita e hanno insistito per avere la prova che ero davvero candidato all’Oscar per il documentario “Cinque telecamere distrutte”. Se non avessi potuto dimostrare il motivo della mia visita, mi avrebbero subito rimandato in Turchia insieme a mia moglie  Soraya e a mio figlio Gibreel”.

Emad Burnat racconta: “Quando sono arrivato negli Stati Uniti, mi hanno interrogato e chiesto più documenti. Avevo il visto, avevo i documenti, avevo l’invito. Avevo tutto, eppure continuavano a chiedermene altri. Dopo quaranta minuti di domande e risposte, Gibreel mi ha chiesto perché eravamo ancora in quella stanzetta e io gli ho risposto la verità, ossia che forse ci avrebbero fatti tornare indietro.  Ho sentito la sua angoscia.”

La nascita di Gibreel nel 2005 è stata la motivazione della pellicola. Emad Burnat ha comprato una telecamera per filmare la crescita del suo quarto figlio. Proprio allora il governo israeliano aveva cominciato a costruire il muro di separazione a Bil’in, il che ha dato origine a una campagna di resistenza nonviolenta da parte degli abitanti palestinesi e di chi li appoggiava. Mentre Burnat riprendeva le proteste, a una a una le sue telecamere sono state distrutte o danneggiate dalla violenta risposta dell’esercito israeliano e dei coloni armati.

Dror Moreh è il regista israeliano del documentario “The Gatekeepers”. Moreh mi ha detto: “Gli insediamenti sono il maggior ostacolo alla pace. Se c’è qualcosa che eviterà la pace sono gli insediamenti e i coloni che vi abitano. Credo che si tratti del gruppo più influente della politica israeliana; in pratica ha dettato la politica di Israele negli ultimi anni. Credo che per i palestinesi gli insediamenti siano il maggiore impedimento alla creazione della loro patria. Osservano come i coloni si espandono dappertutto, come gli insediamenti crescono, simili a  funghi dopo la pioggia, ora anche in Giudea e  Samaria e vedono il loro paese ridursi sempre di più.”

Sia “Cinque telecamere distrutte” che “The Gatekeepers” competono agli Oscar con altri pesi massimi quali “How to survive a Plague” sull’epidemia di AIDS, “The Invisible War”, sulle violazioni impunite commesse dalle forze armate degli Stati Uniti e  “Searching for Sugar Man”, sulla ricomparsa di un musicista creduto morto da tempo.

Emad Burnat ha concluso così la sua dichiarazione sulla detenzione all’aeroporto di Los Angeles “Nonostante sia stata un’esperienza sgradevole, questo è ciò che succede tutti i giorni ai palestinesi in Cisgiordania. Nei nostri territori ci sono più di 500 posti di blocco israeliani, strade interrotte e altri ostacoli al libero movimento. Tutti conosciamo l’esperienza fatta ieri dalla mia famiglia e da me. Il nostro è stato solo un piccolo esempio di ciò che i palestinesi subiscono ogni giorno.”

Al di là di quale sarà il documentario vincitore, l’Oscar del 2013 segnerà un cambiamento storico nel dialogo pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina, un cambiamento rimandato per molto tempo, del quale saranno testimoni 40 milioni di telespettatori.

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo